A Piazza San Giovanni nasce la destra plurale

lunedì 21 ottobre 2019


A proposito della piazza romana di sabato, su di una cosa Gad Lerner sbaglia commentando l’evento per “La Repubblica”: non c’è una destra che si finge moderata ma va a rimorchio di Matteo Salvini e si esalta per il “Dio, Patria e famiglia” sdoganato dall’intervento di un’applauditissima Giorgia Meloni. A Piazza San Giovanni s’è vista la destra. E punto.

È stata la fine di un‘ipocrisia durata anni, pensare che vi fosse un popolo di centro, moderato, amante dello status quo e allo stesso tempo desideroso di coalizzarsi con estremisti e radicali per amore di un ossimoro. Quando è sceso in campo Silvio Berlusconi, c’era un’Italia travolta da Tangentopoli e un ceto medio produttivo frustrato ma voglioso di voltare pagina. Il Cavaliere si presentò agli italiani promettendo la rivoluzione liberale. Proprio così: la rivoluzione, non la restaurazione democristiana. Quella semmai la propugnavano i sopravvissuti dossettiani della balena bianca all’onda di piena delle manette dei giustizialisti, pronti a porsi al servizio della causa comunista. L’appeal personale ed elettorale del leone di Arcore è cominciato a calare quando ha provato a riposizionarsi al centro lasciando la naturale collocazione nell’area della destra liberale, fino a infrangersi sulle secche dello sciagurato Patto del Nazareno. Lo raccontano bene i numeri.

Alle elezioni politiche del 2013, alla Camera dei deputati, nonostante la sconfitta libica, il complotto internazionale per defenestrare il premier Berlusconi, il terremoto del Governo Monti e la scissione a destra di Fratelli d’Italia, il Popolo delle Libertà riusciva a stare, con il 21,56 per cento, sopra la soglia psicologica del 20 per cento dei consensi (oggi sarebbe un lusso per chiunque), con un’affluenza alle urne altissima (75,20%). Migliore il risultato al Senato: il Pdl al 22,30 per cento. È bastato che passasse un anno e che nel mezzo vi fosse un’intelligenza con Matteo Renzi, portatore di quel suo sogno nel cassetto mai sopito (neppure adesso, a sentirlo alla Leopolda) di risucchiare a sinistra i berlusconiani, che i consensi per Forza Italia alle Europee del 2014 scesero di colpo al 16,83 per cento. Con ciò dimostrando che gli elettori di Berlusconi sono sempre stati più a destra della classe dirigente che avrebbe dovuto rappresentarli. E quando si sono sentiti delusi si sono astenuti o hanno optato per altri partiti più coerenti nel sostenere posizioni marcate. Da chi credete sia composto quel 34 per cento di voti che le ultime urne assegnano alla Lega di Salvini, oppure quel lusinghiero 7 e passa per cento attribuito a Giorgia Meloni & friends? E anche nella platea dei Cinque Stelle si ritrovano italiani che, almeno una volta nella vita, hanno votato Berlusconi perché cambiasse, da destra, il Paese, non perché facesse la mosca cocchiera della sinistra.

Ce n’è voluto di tempo ma oggi il vecchio leone di Arcore ha compreso che ciò che gli resta in termini di consenso non può essere trasportato dall’altra parte del campo. Questa è una fantasia perversa di una classe dirigente forzista che non è mai stata tale preferendo acconciarsi alla corte del sovrano, da cortigiana. Ora che la barca fa acqua questi coraggiosi provano a saltare sulla scialuppa renziana. Che riescano a sopravvivere o soccombano tra i marosi del dissenso popolare importa nulla. Ciò che vale è la presa d’atto del capo che, con la sua presenza sul palco di Piazza San Giovanni, ha lanciato un messaggio chiaro e netto: “Sto con la destra”. Il che è un modo per rivendicare una storia a tratti anche esaltante e non vuole significare, come insinua il perfido Lerner, appiattirsi su Salvini.

Accanto a una destra conservatrice, oggi rappresentata da Giorgia Meloni e ad una marcatamente sovranista, impersonata da Matteo Salvini, c’è una componente liberale che in passato è stata iscritta nel Dna di Forza Italia ma che adesso è caricata sulle spalle del solo anziano leader e di quel che resta del manipolo di fedelissimi. L’inevitabile riconfigurazione dei rapporti di forza all’interno della coalizione fa sì che da Piazza San Giovanni in poi, riguardo all’alleanza, non si parli più di centrodestra ma di destra plurale. Tuttavia, al momento siamo al contenitore. Manca la parte più difficile: il contenuto. È vero che la coalizione ha dalla sua una consolidata tradizione di buon governo comune dei territori. Ma ai livelli amministrativi dove fanno aggio gli interessi materiali dei cittadini è più facile andare d’accordo, essere in sintonia con le scelte da compiere. Il Governo della nazione è altra cosa, più complicata. Lì entrano in gioco visioni di fondo che non sono coincidenti. L’approccio alla globalizzazione, il rapporto con l’Unione europea, le alleanze geopolitiche, il welfare, l’autonomia differenziata delle Regioni, il ruolo dello Stato nell’economia, sono argomenti che hanno diviso e non unito i player della coalizione. È ovvio che occorra fare sintesi, lavorare sodo perché su ogni punto programmatico si raggiunga una visione condivisa. Il grande vulnus che ha minato l’azione dei governi del centrodestra del passato è stato di aver sottovalutato l’aspetto programmatico pensando, erroneamente, che sarebbe bastato vincere le elezioni per governare il Paese. A lume di naso, si direbbe che Matteo Salvini non voglia commettere lo stesso errore.

Ora, la strada per il ritorno del Paese alle urne è lunga. Appena ieri, uno spregiudicato Matteo Renzi lo ha detto in chiusura del suo intervento alla Leopolda: si resta al Governo, costi quel che costi, per votare un Presidente della Repubblica filoeuropeista, e amico della sinistra, e per scongiurare la possibilità che possa essere Salvini a sceglierlo. A Renzi e a tutti gli altri dell’allegra brigata giallo-fucsia non frega niente della volontà popolare, conta solo che riescano a imporre la loro di volontà, anche se minoritaria nel Paese. Si chiama democrazia secondo il vangelo cattocomunista per cui è cosa buona e giusta votare se il sentiment popolare pende a sinistra, non lo è invece quando pende a destra. E visto che è da parecchi anni che va così, non vi è alcun motivo per ritenere prossime le urne. Questo tempo dovrà essere sfruttato dalla destra non solo per conquistare palmo a palmo il governo di tutti i territori e delle regioni, ma dovrà essere impiegato per far maturare quei processi di sintesi programmatica, indispensabili per rendere credibile l’offerta politica della coalizione. Che sul contrasto dell’immigrazione clandestina e sulla sicurezza a destra si sia tutti d’accordo è cosa arcinota e non occorre ribadirlo a ogni piè sospinto. Si passa per sembrare un disco rotto. Ciò che serve è di squadernare le questioni che dividono e su quelle cercare la quadra. A riguardo, ne vengono in mente alcune sulle quali piacerebbe ascoltare il punto di vista di Salvini e della Meloni. La scorsa estate, quasi in sincrono, il presidente russo Vladimir Putin e quello ungherese Viktor Orbán, hanno ipotizzato il tramonto del liberalismo, dopo quello del comunismo, e si sono espressi per la sperimentazione di nuove forme di democrazia, fuori dagli schemi classici, occidentali. Rispetto a chi professa il credo liberale-liberista-libertario, come la si mette? E l’identitarismo sovranista, che accomuna la Meloni a Salvini, è declinabile secondo un paradigma libertario, incardinato nel garantismo dello Stato di diritto, oppure esso resta indissolubilmente connaturato alla matrice autoritaria dello Stato etico? Non sono questioni da poco. In fondo, sparare quattro slogan per vincere un’elezione è sempre possibile. Il guaio, però, è che dopo non si va da nessuna parte. E con chi te la prendi? Con il proverbiale: “Piove, governo ladro”? Ma se sei tu il governo?


di Cristofaro Sola