Uguaglianza, imposta progressiva, sanità pubblica

Sessant’anni fa, quello spiritaccio di Giulio Andreotti si domandava: “Perché la stupenda frase La giustizia è uguale per tutti è scritta alle spalle dei magistrati?”. Domanda retorica per comune esperienza nella Repubblica italiana, che indulgiamo a definire ‘Stato del dritto’. Eppure, già Aristotele affermava che uguaglianza e libertà sono l’inscindibile essenza dell’unica vera democrazia. Ovviamente, intendeva la legge uguale, espressa con il mirabile nome di isonomia, cioè uguaglianza nei diritti, non nei possessi.

Settant’anni fa i costituenti assestarono un colpo mortale all’uguaglianza legale (pur sancita dalla Costituzione nell’articolo 3, primo comma, e subito minacciata tuttavia dal secondo comma) nell’approvare l’articolo 53, secondo cui “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. È un principio nuovo perché, mentre il concorso di tutti alle spese pubbliche era già stabilito nello Statuto albertino, questo stesso poi decretava, al contrario della Costituzione, che “i cittadini contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”. Fissava cioè il principio della proporzionalità, l’unico che rispetta l’uguaglianza legale, mentre il principio della progressività la nega in modo irreconciliabile. Per dirla con Thiers “la proporzionale è un principio, ma la progressiva non è che un odioso arbitrio”, mentre Stuart Mill definì l’imposta progressiva “una forma moderata di furto.

”Alla sinistra politica infatuata dell’imposta progressiva ricordiamo che per Marx e Engels del Manifesto comunista “un’imposta sul reddito fortemente progressiva sarebbe stata l’arma con la quale, dopo la rivoluzione (notate bene!), il proletariato sfrutterà il suo potere politico per estorcere gradualmente alla borghesia tutti i capitali, per accentrare tutti gli strumenti della produzione nelle mani dello Stato" L’aliquota progressiva è ingiusta non solo per la ragione così brillantemente spiegata dai padri del comunismo scientifico, ma soprattutto perché assolutamente antiegualitaria. Infatti solo con l’imposta proporzionale riusciamo ad applicare a tutti lo stesso criterio di prelievo (isonomia). I Costituenti ebbero molto chiaro tuttavia che “non tutte indistintamente le imposte devono essere progressive, perché ben sappiamo che ciò sarebbe impossibile e scientificamente errato”, come confermato dall’interpretazione che il presidente Ruini fece del testo concordato e approvato.

Veniamo dunque alla sanità pubblica, che da contribuenti paghiamo cinque volte: la prima, con l’imposta progressiva sui redditi (più Irpef versi, più finanzi la sanità, mentre sentiamo dire che “i ricchi”, versata l’imposta, la sanità dovrebbero poi pagarsela a parte); la seconda, con le addizionali (più Irpef, più addizionale progressiva); la terza, con i tickets (si prevedono progressivi anch’essi); la quarta, con il contributo sull’assicurazione dell’automobile (più costa la polizza, più paghi la sanità); la quinta, finanziando lo scarto tra contribuzioni e prestazioni mediante il debito pubblico. Il sistema di finanziamento della sanità è dunque devastato dalla discriminazione perpetrata ope legis dall’ingiusta diseguaglianza tra i cittadini finanziatori. Peggio ancora: il servizio sanitario vero e proprio, essendo regionalizzato, non è meno discriminatorio verso i malati, quanto ad assistenza e cure. Infatti la stessa imposta sui redditi “rende” in modo differenziato a seconda della regione di residenza del malato, che così subisce la beffa di doversi trasferire per ricevere le cure desiderate e il danno della spesa personale aggiuntiva per ottenerle. A tacere che, per curarsi davvero quando ne ha l’urgente necessità, il cittadino è costretto a pagare parcelle alla medicina privata, così di fatto finanziando indirettamente la medicina pubblica che risparmia le relative prestazioni.  Tutta questa devastante diseguaglianza persiste alla faccia dei principi ispiratori e fondatori della sanità pubblica: universalità, gratuità, ugualità.

Né basta, perché il legislatore, incamminato per fini di uguaglianza, come l’intende lui, o per esigenza di entrate, come capiamo noi, sulla via delle differenziazioni invece arbitrarie in entrambi i casi, è costretto ineluttabilmente a commetterne altre a catena. L’esempio forse più tangibile e clamoroso consiste nell’addizionale Irpef per risanare la sanità del Lazio. Pure l’addizionale è progressiva! Per scaglioni di reddito, giunge al 3,33 per cento oltre 75mila euro. Al di là di tale soglia, dunque, il contribuente laziale, un “ricco” tapino, versa all’erario 46,33 euro ogni 100 euro aggiuntivi guadagnati. Ma non finisce qui. Infatti anche il Comune di Roma esige la sua fetta, pari allo 0,9 per cento, ma, bontà sua, uguale per tutti i redditi superiori a 12mila euro esenti, un’imposta proporzionale, essa sì almeno rispettosa dell’uguaglianza. Non un mal pensiero, sebbene la ragionevolezza alimenta il sospetto che tali aliquote e tali addizionali, e consimili marchingegni tributari, siano stati decisi da maggioranze di legislatori ai quali non sarebbe capitato di subirli.

Aggiornato il 14 ottobre 2019 alle ore 16:22