Da Pontida la parola d’ordine leghista è “Vincere!”

lunedì 16 settembre 2019


Metti un prato stracolmo di gente e metti un leader ispirato che idealmente li abbraccia uno ad uno e hai la combinata perfetta. Che non ha paura di affrontare il presente e di sfidare il futuro. Questo è stata Pontida. Il giorno dell’orgoglio leghista, del riscatto della figura carismatica del capo appena appannata dagli eventi ultimi della crisi di governo. Ma anche il luogo della strategia di lungo respiro della Lega una, dalle Alpi alla Sicilia, che ha tracimato dalle valli padane per sconfinare nell’altro mondo.

Matteo Salvini non ha ravanato nei bassifondi della retorica polemista, ma ha offerto ai suoi una visione. E la gente lo ha capito e gli è andata dietro, come un’orchestra affiatata intenta a suonare uno spartito che un ruvido direttore riscrive nell’aria sulla punta della sua bacchetta. Certo, c’è stato nel discorso tutto l’armamentario delle proposte note: Flat tax, autonomia dei territori, sicurezza, lotta all’immigrazione clandestina, azione di sostegno alle imprese e ai creatori di ricchezza i quali entrano in una nuova coppia assiologica alternativa alla voce “produttori” in contrapposizione all’altra che è dei “parassiti”. C’è l’impegno a sostenere un’opposizione intransigente contro la legalizzazione della droga. C’è poi l’attenzione alla famiglia, ai suoi valori da proteggere e ai bambini, che sono l’oro della nazione. E c’è una speciale menzione per gli uomini e le donne in divisa e per quel Ministero dell’Interno, tanto centrale per la vita ordinata degli italiani, al quale, parole testuali di Salvini, egli conta di tornare presto. Un messaggio in codice per dire che anche in caso di vittoria del centrodestra non sarà lui il premier del futuro governo? E c’è anche spazio per un colpo basso tirato al Partito Democratico: in coda al comizio la chiamata sul palco di una bimba di Bibbiano restituita di recente alla madre alla quale era stata strappata dai servizi sociali oggi sotto indagine dell’autorità giudiziaria. Un modo neanche tanto nascosto per dire che il leitmotiv delle prossime campagne elettorali conterrà lo slogan “dalli al partito di Bibbiano”.

Ma c’è altro che segna il salto di qualità della politica salviniana, rendendo il passo indietro dal Governo con i pentastellati un passo avanti verso la vittoria finale di un’idea di Paese, alternativa a quella delle sinistre. Già, perché la prima pietra di confine piazzata sul pratone di Pontida riguarda l’appartenenza ideologica. Salvini scandisce perentoriamente: la Lega non sarà mai di sinistra e non andrà mai col Partito Democratico. Ergo, la Lega è di destra. Poi, l’ancoraggio alla tradizione. Però, niente più riti celtici ma una più sobria ritualità ghibellina per onorare i propri defunti, militanti e compagni di una vita che non ci sono più: braccia conserte mentre scorrono le note di una struggente melodia, “Amazing Grace” nella versione cantata da Judy Collins.

Salvini, tra una proposta e una promessa, compone il suo Pantheon. Oriana Fallaci, maestra di libertà e di orgoglio civile che andrebbe insegnato nelle scuole, ricordata nel giorno dell’anniversario della sua scomparsa. Margaret Thatcher, per la sua fede incrollabile nella libertà economica senza la quale nessun individuo sarà mai libero dall’invasività dello Stato controllore. E poi Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia. Lui, che pensava che i magistrati dovessero astenersi dal candidarsi in politica o, in alternativa, dimettersi dall’Ordine giudiziario. E San Giovanni Paolo II, chiamato in causa dal leghista per sottintendere che un modo di concepire il rapporto della società italiana con la Chiesa, differente dalla versione che oggi impone Bergoglio, è possibile.

Questa la teoria, e la prassi? Salvini non si nega nel dispiegare la strategia di avvicinamento della destra alla vittoria sui nemici del Pd e sui “traditori” del Movimento Cinque Stelle. Conquista graduale dei territori attraverso le elezioni locali e regionali. Salvini pensa di portare il Governo giallo-fucsia a una progressiva paralisi mediante il contrasto che le istituzioni territoriali governate dalla destra possono esercitare contro i provvedimenti adottati in sede di governo. La lezione degli anni del centrodestra berlusconiano, vincente al centro ma sconfitto nel gran numero delle regioni e nelle amministrazioni delle grandi città, è servita al “Capitano” per comprendere un’elementare verità: non si governa con l’opposizione delle istituzioni territoriali. Ecco perché il successo alle prossime elezioni in Umbria, Emilia-Romagna e Calabria sarà decisivo per consolidare il ruolo delle regioni vinte dalla destra quale terzo soggetto collettivo, oltre ai gruppi parlamentari dell’opposizione e alle piazze della protesta, da schierare contro il Governo. E poi, l’annuncio del ricorso all’arma dei referendum abrogativi contro le leggi che la sinistra approverà in danno degli interessi della nazione. Provano a introdurre lo ius soli? Referendum. Abrogano i Decreti Sicurezza per riaprire le porte ai clandestini? Referendum. Dall’aldilà Marco Pannella farà salti di gioia vedendo utilizzato lo strumento referendario come arma in difesa del popolo dagli abusi del potere.

Intanto si comincia con il referendum per abrogare la quota proporzionale dell’attuale legge elettorale a beneficio del ripristino di un maggioritario puro. Eccellente mossa giocata d’anticipo per bloccare i tentativi, maldestri, della nuova maggioranza giallo-fucsia di cucirsi addosso un proporzionale puro, benché antistorico, per sbarrare il passo al successo della destra. Anche qui tornano in gioco le regioni. Nessuna campagna per la raccolta delle firme. Bastano i deliberati di 5 Regioni per richiedere la convocazione del referendum. Deve avergliela messa giù dura Salvini ai suoi amici governatori del Nord. In particolare a Luca Zaia e ad Attilio Fontana, che più di tutti hanno fatto pressioni perché la Lega rompesse con i Cinque Stelle. Lo immaginiamo il discorso dai toni poco amichevoli del “Capitano” ai suoi: avete voluto che mandassi tutto a pallini? L’ho fatto, vi ho dato ascolto. Ma adesso voi fate quel che dico e non pensiate di cavarvela facendo i pesci in barile. Qualcosa ci dice che nel prossimo futuro sentiremo parlare spesso dell’attivismo dei Consigli regionali guidati dalla destra per iniziative di respiro nazionale. E, poi, è questione di tattica. Salvini deve rendere palmare l’assurdo di un Governo giallo-fucsia voluto dall’Europa franco-germanica e dal presidente Sergio Mattarella, che è all’opposizione del Nord, cioè della parte più popolosa e produttiva del Paese.

Un punto di chiarezza arriva da Pontida anche sui rapporti con l’Unione europea: la Lega non vuole uscire dall’Europa. Al contrario, rivendica il ruolo di difensore delle vere radici europee e di quell’idea originaria di Unione che appartenne ai suoi padri fondatori. Un’Europa dei popoli e non dei banchieri. Fine delle trasmissioni. Cosa capiamo dopo Pontida? Che Salvini c’è e non se n’è mai andato. Resta in campo per vincere, secondo il suo schema di gioco. C’è stato finora un popolo che gli ha creduto, perché dovrebbe smettere di farlo? Ecco perché quella parola: “Vincere!”, allungata sulla platea del pratone, acquista un senso compiuto. Un imperativo categorico declinato nella riscrittura di due righe di un “Nessun dorma” scelto da colonna sonora all’avanzata del Capitano sul palco, davanti alla sua gente.


di Cristofaro Sola