La malattia del vecchio Pd è il governismo

lunedì 19 agosto 2019


Il governismo, ovvero la malattia senile del post-comunismo. Quella che rispunta in maniera prorompente all’interno del Partito Democratico sotto la spinta di tutti gli esponenti delle vecchie generazioni , quelli che vanno da Romano Prodi a Walter Veltroni fino a Dario Franceschini e che, pur essendo stati vittime della “rottamazione” di Matteo Renzi, hanno scoperto che la voglia smodata di governo piddina ha trovato il massimo interprete nel loro antico persecutore.

La vecchia guarda del Pd, unità per l’occasione con il “rieccolo” ex rottamatore, vuole ad ogni costo tornare al governo del paese. Non solo per brama di poltrone (ormai la polemica sul poltronismo non risparmia nessuno ed è diventata stucchevole) ma soprattutto perché la vocazione alla gestione del potere e l’identificazione con ogni presunto potere forte (sistema finanziario e bancario, asse franco-tedesco nella Ue, Chiesa bergogliana, alte burocrazie statali, ecc.) è diventata nel corso degli anni l’unica risposta possibile alla crisi di idee in cui versa la sinistra italiana da almeno un trentennio.

Per la gran parte del Pd, quindi, rientrare nella stanza dei bottoni è l’unico modo per sopravvivere. Ed in nome di questa esigenza suprema ogni forma di trasformismo politico e culturale diventa auspicabile, giustificabile, sacrosanto. A partire da quello che Prodi, Veltroni, Franceschini e Renzi ora propongono sostenendo l’indispensabilità di un accordo con il Movimento Cinque Stelle per gestire in comproprietà il paese fino alla elezione del successore di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica (che ovviamente dovrebbe essere un esponente della sinistra) e, possibilmente, fino alla scadenza naturale della legislatura.

È possibile che la manovra dei governisti piddini riesca. In un Parlamento dove il settanta per cento dei deputati e dei senatori è certo di non venire rieletto in caso di elezioni anticipate, non dovrebbe essere troppo complicato trovare i numeri per assicurare la sopravvivenza politica del vecchio ceto del Pd , della casta di vertice del M5s e di quella personale di parlamentari senza altra occupazione. Ma si tratterebbe di una operazione di corto respiro. In tutto simile a quelle targate a suo tempo Mastella, Alfano, Verdini. Che si realizzarono e si consumarono nel Palazzo senza alcun rapporto e riscontro nell’opinione pubblica del paese. E se da un lato diedero una boccata d’ossigeno al Pd, dall’altro misero in luce l’irreversibilità della crisi della sinistra senza idee, senza progetti, senza una visione per la società del futuro.

Al Pd, per rigenerarsi liberandosi della sindrome governista che lo avvelena, servirebbe un periodo all’opposizione. Ma come convincere i vecchi arnesi a cui l’unica spinta propulsiva rimasta è quella per lo strapuntino governativo?


di Arturo Diaconale