La crisi politica del (non) fare

venerdì 19 luglio 2019


Parlare di crisi politica non significa sempre l’annuncio di elezioni (anticipate) più o meno inevitabili e quindi imminenti. A parte il fatto che si trova, a volerla, un’altra maggioranza. La politica italiana ne è maestra. E non è infatti un caso che si senta più spesso discutere di nuove o nuovissime alleanze sostitutive, non politiche ma di potere, tese di certo ad evitare consultazioni elettorali, ma anche, come nel caso italiano, a togliere da una situazione per dir così statica, se non peggio, quel Partito Democratico che la gestione di Nicola Zingaretti non ha risvegliato da un torpore abbastanza durevole.

Cui prodest, si sta domandando qualcuno, al di là del fatto che una chiamata alle urne vicine costituisce sempre un’incognita per ciascun partito? La risposta che viene subito alla mente riguarda quella che non pochi chiamano la crisi di Matteo Salvini, toccato, non personalmente, da inchieste che nessuno può sottovalutare ma che non sembrano aver demoralizzato l’interessato. Intendiamoci, ogni convocazione da un pubblico ministero riguardante un politico merita la massima attenzione, e non soltanto dai chiamati, ché la storia del Paese proprio dalle iniziative giudiziarie è stata letteralmente capovolta e il progredire a scarpe chiodate, ad esempio, del leggendario pool milanese ha non soltanto agevolato lo stanco cammino degli ex Pci, ma ha consentito alla Lega, grazie al Silvio Berlusconi di Forza Italia, di accedere al governo salendo dalle amministrazioni locali al potere nazionale. E avviando una fase politica affatto nuova che dura tuttora, passando da Umberto Bossi a Matteo Salvini. Quest’ultimo agevolato, sul piano della conquista di voti, dalle vicende giudiziarie berlusconiane che hanno consentito alla Lega di crescere, e di molto.

Non v’è dubbio che il leader leghista attraversi un periodo non facile, ma parlare di crisi politica tout court non sembra del tutto appropriato pur sottolineandone gli aspetti interni a una maggioranza di governo con quei pentastellati che proprio Salvini ha tolto da un’opposizione gridata contro tutto e contro tutti, consapevole che la loro trasformazione da oppositori accaniti a governativi tranquilli non li avrebbe ingrossati di voti, tant’è vero che nei sondaggi più recenti non paiono avere conquistato consensi, anzi. Non così, almeno per ora, le rilevazioni a proposito del salvinismo, prima di lotta ed ora di governo, non soltanto in attesa di sviluppi delle inchieste avviate, ma della stessa attività di un Esecutivo a guida Conte in cui il ruolo del suo vicepresidente Salvini è di tutto rilievo. E lo sarà non solo e non tanto per le incertezze (ad essere buoni) dimaiane e degli altri ministri pentastellati – dei quali è arduo persino ricordare i nomi – ma proprio da una produzione governativa che pare a non pochi non tanto o soltanto scarsa, ma priva di quelle “grandi riforme” gridate più che nei comizi sui mass media, dei quali è bensì facile profittarne con annunci pluriquotidiani, purché alle parole (e ai video) seguano i fatti.

In questo senso, anche Salvini è costretto a pagare pegno proprio perché la cosiddetta politica del non fare mette a rischio proprio quei partiti come la Lega che, a differenza del grillismo, ha da anni una consuetudine governativa, basti pensare a Bobo Maroni che è stato uno dei più sapienti e moderati ministri degli Interni.

I limiti di quello che definiamo salvinismo si stanno rivelando esattamente nella dimensione della produzione di un governo che poteva (meglio, potrebbe) fare molto di più, basti pensare alla maggioranza parlamentare di cui gode, oltre che alla inesperienza pentastellata cui Luigi Di Maio cerca di rimediare soprattutto con una sua presenza mediatica, in concorrenza a quella di Salvini.

Salvini non attraversa una crisi politica vera e propria, sia perché agevolato da un’opposizione poco brillante, ma soprattutto per le mancate realizzazioni degli annunci elettorali, peraltro ribaditi giorno dopo giorno se non ora dopo ora, sullo sfondo di un Paese immerso in una Ue della quale Salvini non è affatto amico preferendole Vladimir Putin, un po’ come, in lontani anni della Prima Repubblica, il Partito Comunista ammirava gli Stalin e i Breznev (e non solo) con una Urss in dissidio, coi suoi satelliti, nei confronti di Usa, Patti Atlantici e seguenti.

Things change, come diceva un Reagan o un Blair ed anche un Andreotti o un Craxi. Solo che le cose, in politica, cambiano e in peggio, se non si fanno. E il rischio salviniano è proprio il non fare. Rimediabile, ovviamente, purché non duri troppo a lungo.


di Paolo Pillitteri