I collegamenti di Carola con il tribunale Onu dell’Aja

La vicenda della Sea-Watch 3 presenta almeno tre punti interrogativi, da cui discendono ombre e insicurezze per le casse dello Stato (ovvero per noi contribuenti) e, soprattutto, funesti presagi. Quindi analizziamo i fatti. Attualmente la cittadina tedesco-olandese Carola Rackete può vantare presso la Corte dell’Aja due atti pubblici: la pronuncia di un tribunale italiano, che forse non l’assolve dall’ipotesi di reato di “aggressione a nave militare”, e l’interrogazione parlamentare di Nicola Fratoianni (deputato di Sinistra Italiana) che chiede, nello specifico, le misure che intenderebbe prendere il Comando generale della Guardia di finanza contro comandanti ed equipaggio della motovedetta che, a parer suo, avrebbe impedito l’attracco umanitario della Sea-Watch 3 nel porto siciliano. Fratoianni ha improntato la propria attività ispettiva parlamentare (interrogazioni e altro) su situazioni inerenti la mancata accoglienza ed attività ostative alle Ong da parte dello Stato italiano: valga da esempio la posizione presa dall’onorevole Fratoianni nel 2017, all’indomani dell’accordo stretto dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd) con il governi sia di Tripoli che della Cirenaica per frenare l’immigrazione dalla Libia.

Altro aspetto che va considerato è che la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), fino alla messa in libertà di Carola Rackete, non s’era occupata della questione. Anzi, aveva rigettato la richiesta (presentata con urgenza) che migranti ed equipaggio della Sea-Watch 3 venissero immediatamente portati in Olanda: il Paese nordeuropeo aveva la porta aperta solo per Carola, ma come “normale” cittadino.

Ora spieghiamo questo “normale”: Carola Rackete è figlia d’un imprenditore tedesco e d’una aristocratica olandese, il padre (superficialmente descritto come trafficate d’armi) presiede la società equivalente della nostra Finmeccanica, mentre la madre può vantare parentele con avvocati e magistrati presso la corte internazionale di giustizia dell’Aja (organo giudiziario dell’Onu).

Anzi, c’è da supporre che quest’ultima istituzione non sia entrata nella questione per mantenere il distacco (l’equidistanza) forse imputabile anche alla disapprovazione della famiglia Rackete verso l’attività della figlia. La Rackete aveva detto a Repubblica “Entro nelle acque italiane e li porto in salvo a Lampedusa. Sto aspettando cosa dirà la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Poi non avrò altra scelta che sbarcarli lì”: forse era certa d’un supporto d’amici e parenti? Il supporto in un primo momento non c’era stato. Oggi, grazie al pronunciamento del Gip di Agrigento Alessandra Vella, la famiglia della Rackete può adire alle competenti corti europee (Aja e Strasburgo) per chiedere condanna dell’Italia e forma risarcitoria. Per certi versi, si potrebbe sostenere che i potenti sono stati alla finestra sino al proscioglimento. Fonti beninformate ci rivelano che, l’intelligence italiana conosce l’attività della Rackete, ed il gruppo di cui fa parte era stato attenzionato dall’inizio di “Mare Sicuro” (la missione navale varata nel marzo 2015).

Altri atti che i legali della Rackete intendono portare a l’Aja sono i riscontri alle audizioni parlamentari del Comandante Generale della GdF (generale Giuseppe Zafarana) e della Guardia Costiera (ammiraglio Vincenzo Melone): atteso che i due comandanti in oggetto non rispondono certo al ministro dell’Interno Matteo Salvini, e che in Commissione Difesa risponderebbero unicamente sull’esigenza di preservare gli interessi nazionali “area critica”, confine libico e competenze portuali (ovvero ministeri della Difesa e delle Infrastrutture). Del resto più volte Marina militare e Capitanerie di porto avevano intercettato (dal 2016 ad oggi) le navi Phoenix e Topaz-Responder (due imbarcazioni di 41 e 50 metri dell’Ong collegata al Moas e registrate in Belize e nelle isole Marshall) e collegate alla Sea-Watch 3: la Guardia costiera li aveva registrati come “trasponder di bordo”, facilitatori essenziali delle traversate dei migranti. Dati che emergono nelle carte del procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, responsabile dell’inchiesta sul Moas e sulle altre Ong.

Sea-Watch non è solo il nome di una nave, ma anche l’organizzazione (tutt’altro che benefica) partecipe dell’operazione di destabilizzare l’Europa mediterranea tramite la massiva importazione di massa di africani: notizia che già tre anni fa spingeva il predecessore di Salvini, Marco Minniti, a trattare nel massimo riserbo con le autorità libiche. Nell’operazione di destabilizzazione di Italia e Grecia è implicato l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, che rassicurava i potentati d’Oltralpe circa l’ermetica blindatura dei confini, e che i migranti sarebbero massivamente rimasti in Italia. Sostituzione etnica? Secondo l’avvocato di Slobodan Milosevic, operazione similare sarebbe stata tentata in Serbia, ed emerge nel “contro dossier Kosovo”. Particolare non secondario, l’ex presidente della Jugoslavia, Slobodan Milosevic, è stato processato all’Aja, accusato di aver “programmato e diretto il tentativo di ritagliare nella ex-Jugoslavia dei territori Serbi etnicamente puri”.

Più di trenta testimoni a difesa di Milosevic sfilavano nell'aula dell’Aja (ex politici di alto livello di Serbia o dell’ex Jugoslavia): “Ma il verdetto forse era già scritto”, commentarono alcuni osservatori russi dopo che l’impalcatura accusatoria non venne scalfita nemmeno dalle testimonianze dell’ex primo ministro russo Yeugeny Primakov e dell’ex ministro della Difesa russo Leonid Ivashov.

È facile che all’Aja stiano già lavorando per montare un processo similare al governo italiano. Certamente gli avvocati di Carola Rackete parleranno di ingiusta detenzione e prigionia, strada che permetterebbe il combinato disposto di Corte Ue/sanzioni Ue. Francamente sarebbe a dir poco paradossale ravvisare in Salvini un Milosevic. Ma non è paradossale che, dopo l’atto ispettivo richiesto da Fratoianni, molti uomini di Gdf e Capitanerie di Porto si ricorderanno d’avere famiglia, di dover portare il pane a casa; ergo ci rifletteranno parecchio sopra prima di bloccare navi battenti bandiere di Paesi esotici o nordeuropei.

C’è da credere che l’Italia si trovi oggi in una posizione parecchio scomoda, soprattutto non s’esclude una prova muscolare delle Ong. Mettiamoci nei panni degli armatori, e consideriamo i tanti soldi che muovono le barche che trasportano dai cinquanta ai cento migranti: se lo scrivente fosse l’armatore, darebbe subito un forte segnale, e perché non vengano più fermate le tante Sea-Watch. Ovvero far giungere in Italia una nave con 20mila africani (sullo stile della nave Vlora arrivata nel 1991 nel porto di Bari): dopo siffatta prova di forza, nessuna barca con decine d’albanesi venne più fermata. Si stenta a credere che una simile sorpresa non salpi presto per l’Italia, anche perché non potrebbe essere né fermata né speronata da mezzi militari, per il timore che una simile reazione venga processata all’Aja come crimine militare, ovvero di guerra.

Aggiornato il 05 luglio 2019 alle ore 16:52