Le mani sulla Cultura

La scorsa settimana, la Commissione Cultura della Camera dei deputati ha licenziato il testo base della legge che riduce gli sconti massimi sui libri dal 15 al 5 per cento. Qualche giorno prima, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto che riorganizza il ministero per i Beni e le attività culturali.

Si tratta di due decisioni solo apparentemente distanti. A unirle non c’è solo la comune iniziativa del ministro Alberto Bonisoli, ma la stessa sottostante idea che la cultura sia qualcosa di telecomandabile da un governo centrale. La riorganizzazione del ministero trasferisce funzioni esercitate localmente sul territorio agli uffici centrali del ministero, sacrificando inoltre l’autonomia concessa ad alcuni musei statali con la riforma del precedente governo.

Solo per fare alcuni esempi: viene rafforzato il ruolo del segretario generale del Mibac, cui spetterà tra le tante cose anche il controllo delle politiche dei prestiti dei beni dei singoli musei. Rispetto al precedente assetto, vengono attribuiti al direttore generale della Dg Archeologia, belle arti e paesaggio i provvedimenti di verifica e attribuzione dell’interesse culturale, sottraendoli alle sovrintendenze territoriali. La creazione di una Dg Contratti e concessioni, come stazione appaltante per contratti e concessioni oltre una certa cifra, ha anche in questo caso portato al centro mansioni esercitate localmente da musei e poli regionali. Alcuni musei hanno inoltre perso il loro status di istituti autonomi, come nel caso della Galleria dell’Accademia di Firenze, del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e del Parco Archeologico dell’Appia Antica. Ma è probabile che per i musei autonomi il percorso di revisione della loro organizzazione sia solamente agli inizi, nonostante il buon funzionamento mostrato da tale assetto, che farebbe anzi auspicare per una maggiore autonomia, ad esempio nella gestione del personale, e non per una inversione di rotta.

La libertà di scegliere sul prezzo dei libri, per primo sacrificata da una legge promossa anni fa dal Partito Democratico, viene ulteriormente ridotta. Se oggi i librai non possono vendere con sconti superiori al 15 per cento, domani, con la riduzione della possibilità di sconto al 5 per cento massimo, non avranno in buona sostanza nessun margine di scontistica per provare ad attirare clienti e lettori.

La cosa singolare è che entrambi i provvedimenti sono in teoria stati pensati per promuovere e diffondere la cultura (e la lettura), intervenendo da un lato sulle regole di mercato e dall’altro su funzioni e organizzazione dell’amministrazione dei beni culturali.

È evidente però che vietare a un lettore di comprare a prezzi di favore non promuove la diffusione della lettura, ma ha casomai l’effetto contrario. Così come è intuibile che l’accentramento delle funzioni e la limitazione dell’autonomia di musei e organi periferici assai difficilmente potrà rendere la gestione dei beni culturali più efficiente e rispondente al principio del buon andamento della pubblica amministrazione.

Al di là di quelli che saranno gli effetti probabili, il dato allarmante è la considerazione che il ministero dei Beni culturali ha della cultura: cioè come di un bene di suo esclusivo monopolio e controllo. Mentre se c’è un mercato che va difeso senza esitazione è proprio quello delle idee.

Aggiornato il 03 luglio 2019 alle ore 11:18