Sea-Watch, rileggendo il verdetto del Gip

mercoledì 3 luglio 2019


L’ho letta quattro volte almeno, l’ordinanza del Gip di Agrigento. L’ho letta e, fatta salva la parte sullo speronamento, che reputo inesistente, conservo tutte le mie perplessità.

Non è vero – o è vero solo a metà – che la decisione si fonda su ineccepibili considerazioni in diritto. Intanto, lo scrutinio riguardava l’ipotesi di accusa nei termini in cui era stata formulata dal Pubblico ministero: il delitto di resistenza nel quale la violenza e la minaccia (ripeto: parlo solo di questo; il resto, lo dico da subito, non mi convinceva prima e non mi convince adesso) sarebbero costituiti da manovre evasive e non aggressive. Forse, l’addebito era costruito male.

Bene. Su questo non si dice nulla nel provvedimento, neanche in ordine alla situazione di pericolo generata dall’ingresso in porto. La prima verifica sulla corrispondenza del fatto alla fattispecie incriminatrice in addebito è del tutto omessa. Evenienza singolare, questa, se si considera che l’esimente si applica ad un fatto che, almeno in apparenza, integra un reato. Singolare, ma – forse – non del tutto singolare, perché l’obiettivo dichiarato della decisione era un altro: operare un bilanciamento tra norme di diversa natura e scegliere quella adatta a dirimere la questione. Per fare questo, era necessario stabilire se ricorrevano i presupposti per l’applicazione dell’articolo 10 ter più volte citato, secondo una lettura convenzionalmente orientata.

Qui entrano in gioco le parole dell’indagata, che – era suo diritto – ha descritto una situazione di fatto sulle condizioni a bordo della nave acriticamente recepita dal giudice, anche nella parte relativa al giudizio di “non sicurezza” dei porti tunisini.

Eppure, visto che il tema era la sussistenza di una causa di giustificazione, un minimo di controllo ce lo saremmo atteso. E qui si aprono le porte alla conclusione: la corretta interpretazione della legge, secondo il giudice, autorizzava il comandante ad entrare in porto, disattendendo i divieti delle autorità nazionali.

Mi viene un dubbio, a questo punto: la stessa lettura delle norme non ha connotato i provvedimenti giudiziari emanati nel corso delle ultime settimane. Forse la materia non è così incontrovertibile. Seconda osservazione: la nave era in acque territoriali, alla fonda, in condizioni di sicurezza, come dimostrano gli sbarchi sanitari dei giorni precedenti. Non si discuteva di proteggere vite, ma delle operazioni di sbarco e identificazione di persone (grazie al cielo) già salvate.

Il tema non era il salvataggio, ma il tempo di attesa per gli incombenti amministrativi. Il resto, tutto il resto, è racconto della capitana Carola Rackete, che può difendersi come meglio crede. Il resto è politica.


di Mauro Anetrini