La Ragione di Stato

La verità è che siamo divisi. Parlo di noi avvocati, che, è innegabile, abbiamo, come tutti, idee, opinioni, pregiudizi, che tendiamo a mascherare dietro belle parole. Siamo esattamente uguali agli altri, insomma. In qualche cosa, però, siamo più uguali. Asseritamente forti del nostro ruolo di guardiani dei diritti, ci siamo convinti di essere i custodi della loro lettura ortodossa e della giusta applicazione, dimenticandoci che ciascuno di noi si occupa di una materia nella quale l’interpretazione è tutto, o quasi.

Diciamolo chiaramente: obnubilati dal pregiudizio, ci sentiamo in diritto di accusare “delle peggio cose” chi la pensa diversamente. Di qui, gli scontri interni e gli addebiti di connivenza col sistema o di buonismo ingiustificato. Era ora. Da anni, attendevo l’occasione propizia per dire che la frattura appena descritta è il sintomo di una divisione molto più profonda, che inciderà anche sulle relazioni personali. Anche qui: come tra tifosi di opposte fazioni. Negli ultimi giorni, ho ricevuto più di una lezione di liberalismo, come se avessi venduto l’anima al demonio. Tranquilli: sono sempre io. Solo che la penso diversamente e non mi straccio le vesti per presunte violazioni dei sacri diritti.

La politica è anche questo: diversità. A differenza degli altri, però, io non eludo il confronto, non offendo e non credo di essere monopolista della verità, che non corrisponde affatto alla versione più gradita o moralmente rassicurante. Ultima cosa: piaccia o no, giusto o no, esiste una cosa che si chiama ragione di Stato. Chi la invoca e ne fa uso se ne assume la responsabilità. Non è certo un Paese liberale quello nel quale le azioni di governo sono soggette al preventivo ed inappellabile scrutinio di legalità da parte degli organi giudiziari o dei sacerdoti del diritto. E con questo chiudo. Questa volta, accetto il rischio di sembrare io l’altezzoso.

Aggiornato il 28 giugno 2019 alle ore 12:30