L’Etica del giudice

L’etica del giudice non è la morale comune. A noi pare evidente, ma non a tutti, specialmente, a molti magistrati. Così è sempre in via di principio, sebbene nei fatti assai meno. Generalmente parlando, magistratura afferma che il giudice differisce dal cittadino soltanto perché riveste la toga, non per altro, godendo appieno invece, come tutti, dei diritti costituzionali, cioè delle libertà politiche, civili, economiche, salvo l’iscrizione ai partiti e il coinvolgimento smaccato nella politica, che potrebbero comportare una sanzione disciplinare, seppur blanda e improbabile quanto contestata per legittimità. Le regole della morale del giudice dipendono dall’assetto istituzionale specifico, fatto di disposizioni costituzionali, legislative, regolamentari, le quali ne fanno un cittadino speciale, sia singolarmente che come categoria. Egli è chiamato a sanzionare il diritto fornitogli dalle fonti abilitate e a crearlo da sé interpretandolo.

Essendo soggetto solo alla legge, in realtà sta sopra di essa, perché appartiene ad un ordine autonomo, che non dipende da nessun altro potere mentre ha il potere di rimuoverne l’inamovibilità. Siffatta corazza normativa protegge il giudice per preservare la sua funzione, e dovrebbe bastargli. Invece, no! Egli ritiene che, avendo rispettato tutte le prescrizioni che riguardano lui stesso e il suo operato, ha soddisfatto appieno l’etica professionale. L’esistenza di sanzioni disciplinari per comportamenti eterodossi in servizio o connessivi dovrebbe costituire un secondo argine di contenimento della morale del giudice entro standard superiori a quelli d’un comune impiegato pubblico. Accade e non accade, però trattasi pur sempre di “giudizio dei pari”, una forma di giudizio che in qualsiasi campo non sfugge al sospetto di corporativismo per quanto l’indulgenza dei giudicanti possa venir elargita in totale buona fede in favore dei giudicati. A tacere che il “giudizio dei pari” è impugnabile paradossalmente davanti ad altri giudici, cessando così di essere tale e rimettendo l’indipendenza in mani esterne. Infine, anche la ricusazione e l’astensione concorrono a puntellare l’etica del giudizio.

Tutto questo imponente apparato, tuttavia, non basta a perfezionare e completare l’etica del giudice, la quale è composta da agenda et non agenda incommensurabilmente più sottili del kafkiano castello di regole stampate nella Gazzetta Ufficiale. Un giudice ha certamente il diritto di contrattare occasionalmente l’acquisto di una casa. Però, se si dedicasse con frequenza e assiduità a tal genere di contrattazioni, non saremmo forse indotti a sospettare che si tratti di un giudice troppo intraprendente economicamente? E che diremmo di un giudice aduso ad arringare gli ascoltatori di suoi comizi su argomenti che lo appassionano? E cosa pensare di un salottiero giudice partecipe della più gaudente convivialità? Per non dire dell’esecrando fenomeno dei giudici che vanno e vengono dalla politica diretta e indiretta, passando dalla toga al laticlavio attraverso i gabinetti ministeriali. Niente e nessuno impone loro l’andazzo. Perché non rifiutano in obbedienza all’etica del giudice? Contrattare, esternare, divertirsi, saltabeccare tra i tre poteri sono tutte attività legittime per un giudice ma, ecco il punto, la disinvoltura eccessiva gliele rende moralmente illecite, perché l’etica del giudice è molto più stringente. Nessuno pretende che il giudice viva da eremita o da stilita. Ma neppure che egli nella vita civile si comporti come se giudice non fosse oppure vi potesse sguazzare sfilandosi la toga, all’occasione, il pomeriggio, la sera, la notte e rinfilandosela al mattino in tribunale, come un fregoli dalla doppia vita. Neppure è vero che il giudice è bene che frequenti la società per conoscerla meglio, dovendo amministrare la giustizia in nome del popolo.

Al contrario, proprio il popolo finisce per biasimare, disistimare, diffidare del giudice che somigli fin troppo, frequentandola e conformandovisi nel peggio, alla gente che deve giudicare. Se l’opinione pubblica constata che, per ambizione, interesse, piccineria, un giudice briga e schernisce e spettegola e trama come un poveraccio qualsiasi, immancabilmente conclude che è impari al compito superiore affidatogli dalla legge e che la considerazione dovutagli per la carica è eccessiva quanto inappropriato il rispetto che esige.

Aggiornato il 21 giugno 2019 alle ore 10:41