Presenti alle urne circa la metà

mercoledì 12 giugno 2019


Per carità, niente pianti o alti lai di fronte ad un assenteismo (elezioni ammnistrative e parziali) che si aggira intorno alla metà dei votanti o poco più. Ma basta una semplice occhiata ai dati per osservare che a metà degli italiani non interessa sapere chi gestisce il loro comune, grande o piccolo che sia. Una prova di disinteresse? Una testimonianza di scarsa democrazia? Anche, ma soprattutto il segnale di un vero e proprio cambiamento nell’atteggiamento elettorale e, ovviamente, nelle scelte di voto, mutevoli, cangianti, diverse.

Per non parlare, beninteso, del vero e proprio flop grillino che segnala l’esatto opposto nella considerazione degli italiani di oggi rispetto a quella di qualche tempo fa, non molto, quando sotto le urla antipartiti, antisistema, anticorruzione di tutti, crescevano i successi di un movimento che senza un progetto, senza un programma e senza alcuna visione, a parte la mandata a casa degli infami governanti d’antan, impinguavano di loro eletti aule comunali, provinciali, regionali e nazionali. Messi alla prova del governo con una scelta azzeccata di Matteo Salvini, si sono per dir così svestiti, denudati, rivelati. E non solo nella loro nudità ma, soprattutto, nella loro incapacità. Tanto da tenere alla larga dalle urne non pochi dei loro elettori abituali, anche se a fianco di costoro ne troviamo altri, e non pochi, dei diversi partiti in lizza.

Si sa, il centrodestra - meglio: Matteo Salvini e vedremo perché soltanto lui - a fronte della metà dei votanti che è rimasta a casa (due settimane fa erano stati assenti il 25 per cento degli aventi diritto) ha vinto talmente alla grande da rendere più che evidente l’invasione da parte della Lega della casa del Pd benché, a onor del vero e dei risultati finali, il partito zingarettiano dia qualche segno di ripresa sullo sfondo a dir poco preoccupante del clamoroso voto pro Salvini a Ferrara e Forlì, da dove parte la gara per conquistare la (ex) “ rossa”  Emilia-Romagna.

Ed è proprio dai risultati in questa regione che il Partito Democratico dovrebbe trarre la lezione principale del voto ultimo scorso, sia dalle divisioni interne forlivesi da produrre in quel partito decisioni assai poco comprensibili e da suicidio politico come l’esclusione dalle liste dei suoi ultimi due sindaci, sia, specialmente, dalla constatazione che nella città ci sono zone praticamente off limits a causa della microcriminalità. Tutto ciò non al Giambellino o Quarto Oggiaro, come dicono i milanesi a proposito dell’invasione, per ora periferica, degli immigrati, ma in una zona nella quale i piddini giocavano in casa, nel cuore della regione un tempo cuore rosso dell’Italia. Un cuore dai battiti sempre più lenti se è vero come è vero che cominciò Piacenza a passare al centrodestra, poi fu Parma a passare ai grillini e adesso Ferrara e Forlì alla Lega di un Salvini che è stato ed è in mezzo alla gente, sempre fuori dai palazzi ancorché in primo piano sui media ma del tutto impegnato nel dare di sé l’immagine del sempre presente, con maniche rimboccate, in camicia o in felpa, un po’come uno di loro ma con uno sguardo molto più rivolto alle scadenze elettorali nell’autunno che verrà piuttosto che ai richiami costanti di quella Ue; sordo ai campanelli d’allarme, in una col collega-compagno di governo Luigi Di Maio, e ai richiami che mettono in guardia dai rischi di un non improbabile baratro davanti chiedendo un cambio di rotta per i pericoli di recessione e di deflazione che incombono e dalle minacce di una “ procedura di infrazione per eccesso di debito pubblico”  a cui i due vicepresidenti del Consiglio rispondono ora col classico fin de non-recevoir ora con una sorta di bacchettata sulle dita Ue, replicando che l’errore è, semmai, nelle leggi di Bruxelles. Con un premier Giuseppe Conte non precisamente sulla stessa linea e molto attento a non sfidare l’Unione europea. Certo, il vertice dell’altra sera rappresenta una tregua unificante e, al tempo stesso, una voglia di rilancio dell’attività governativa con l’esaltazione, a parole, delle riforme grandi e piccole delle quali, nei fatti, non si è visto molto ed è del tutto probabile che se ne vedrà ben poco nel futuro, al di là di qualche riflessione del Presidente del Consiglio circa l’unica e vera arma di cui dispone: le dimissioni.

Un discorso a parte meriterebbe quella Forza Italia della quale l’unico propugnatore è anche l’unico detentore del classico potere di vita e di morte interno, non avendo pensato, né prima né ora, a dotarsi di organismi decentrati, funzionali e decisionali, con una sottovalutazione di problemi vitali per un movimento o partito, qualsiasi. La stessa sottovalutazione notata nel Pd nei riguardi della sicurezza con la differenza che, per Forza Italia, si tratta di sopravvivenza.

E fra le molte assenze alle urne della settimana scorsa non è difficile scorgervene non poche di quella provenienza, a parte le molte passate armi e bagagli a Matteo Salvini, cui i cenni berlusconiani in riferimento all’ottimo successo del centrodestra lo stimolano a portarne di nuove sotto le insegne di un Alberto da Giussano che fu nordico e localista ai tempi che furono, ed ora sovranista e nazionalista.

Ma, ed è forse Salvini a sottovalutarne le evidenze: il voto è cangiante, è mobile, qual piuma al vento.


di Paolo Pillitteri