Se Salvini vince ma non trionfa

martedì 11 giugno 2019


Si è parlato e detto molto in questa campagna elettorale. Come sempre, del resto. Meno di programmi e progetti e più, per esempio, di minibot. Meno male che, da qualche giorno, se ne parla sempre meno di quella fantasmagorica moneta che con ironia acuta ma saggia il nostro giornale ha definito come una sorta di trovata da cabaret. Né più né meno, a parte il fatto che, dietro al cabaret governativo, s’intravede qualcosa che ha molto meno a che fare con le barzellette o le trovate.

Intanto, abbiamo una spesa per le pensioni che cresce di quasi 9 miliardi di euro. La flat tax, invero tanto strombazzata come una sorta di vero e proprio remedium malorum, un suo qualche piccolo difetto lo manifesta, sul percorso scivoloso della incognita delle misure per evitare l’aumento dell’Iva. Il giustizialismo e la sua retorica non sembrano scemare nei discorsi salviniani in cui la demagogia rischia di prevale troppo spesso sulle stesse capacità di tenuta governativa del leader leghista, anche con le sue fantasie del day-by-day. Del resto, come si può governare con una simile compagine, guardando al futuro se manca addirittura un programma di fondo, un progetto, una visione?

Diciamocelo: il bilancio di un anno non è positivo ed è arrivata non ultima, come si diceva all’inizio, quella sorta di boutade intorno ai minibot che voleva bensì infiorare la strada del mitico “fare” di Palazzo Chigi e dintorni e si è invece tramutata in un percorso non tanto o soltanto come una strada verso l’inferno lastricato di minibot, ma come la manifestazione di difficoltà economico-politche-monetarie che nessun sorriso del buon Claudio Borghi poteva e possono occultare.

E sono arrivate le elezioni amministrative, sulla cui attesa era scesa una vera e propria ansietà di colori opposti a seconda dei portatori nella misura con la quale dovevano costituire un misuratore dell’operato dell’Esecutivo, anche se lo stesso Conte - che oggi non sta più fra color che sono sospesi, anzi - aveva gettato acqua sui fuochi salviniani non soltanto per distinguersi dalla famiglia grillina da cui proviene ed è stato indicato, ma per collocarsi nella categoria dei cosiddetti tecnici, negli spazi extrapolitici, nella scia di un Mario Monti per dire e, dunque, nell’ascolto di quella Ue verso la quale i toni di sfida di Matteo Salvini si sono alzati quasi quotidianamente, salvo una sorta di sopimento nelle ultime ore, non soltanto per via delle elezioni ma dei suoi risultati.

Intendiamoci, il risultato è positivo per la Lega di governo, ma non trionfale ed il primo ad averne consapevolezza politica è lo stesso Salvini, che ha largheggiato in promesse, spesso mancate, con una narrazione dove le bugie non mancavano sullo sfondo, per giunta, di compagni di governo che proprio largheggiando in bugie e proclami lo avevano battuto alle ultime amministrative, salvo mostrarsi per quello che erano e sono: incapaci. Donde la demagogia suddetta, nella versione per dir così agreable, ovvero nella capacità di usare il potere politico per aumentare il consenso elettorale e il consenso elettorale per estendere il potere politico sulla base, non dimentichiamolo, di quel “Contratto di governo” frutto di un’intesa tra due forze che hanno obiettivi diversi e a volte incompatibili, ciascuna delle quali vota le proposte dell’altro a condizione che l’altro voti le proprie dando, secondo alcuni, l’impressione, ma non solo, che “il contratto ha valore non per quello che esprime, ma per il fatto stesso di essere riconosciuto come valido dai contendenti alleati”.

Al non così pingue risultato dell’azione governativa va tuttavia aggiunta una condizione, a cominciare da Matteo Salvini, di quasi solitudine proprio in quella Ue dalla quale chi ci governa pretende giustamente collocazioni e promozioni pur sapendo, al di là delle invettive e pretese, che la strada degli accordi e dei risultati è lastricata non tanto o soltanto di buone intenzioni ma, soprattutto, di fatti, di scelte; insomma di sacrifici, sia pure reciproci.

Matteo Salvini è certamente un populista, ma conosce bene i gangli del potere, pur non abusandone, per ora, ma essendo antieuropeista può essere qualificato in quell’area di un nazionalismo non dei tempi antichi bensì attuale, up to date, ma sempre e comunque denotanti una sorta di solitudine, un’assenza intorno di alleati (a parte la Grecia) che non possono non avere effetti controproducenti pur facendolo tuonare contro (ora un po’ meno), significando involontariamente una solitudine politica con effetti tutti da verificare in un futuro che è già oggi.

Come diceva il poeta: il futuro ha un cuore antico. Ma va costruito nel presente.


di Paolo Pillitteri