Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur

Tripoli come Sagunto? Non necessariamente. Due eventi, l’imprevista resistenza che il presidente Fayez al-Sarraj sta opponendo sul campo di battaglia all’avanzata delle truppe di Bengasi e la chiamata a rapporto al Cairo del generale Khalifa Haftar da parte del presidente egiziano al-Sisi per consultazioni su “gli sviluppi della situazione in Libia”, fanno sperare che la “blitzkrieg” tentata dall’uomo forte della Cirenaica stia fallendo. Un allungamento dei tempi della guerra civile, ottenuto anche grazie al ricompattamento delle principali milizie della Tripolitania in difesa del Governo di Accordo Nazionale di al-Sarraj, consente all’Italia di riprendere quota nella partita diplomatica che, nel frattempo, continua a giocarsi tra i protagonisti, interni ed esterni, alla contesa libica.

Tuttavia, la realtà ha dimostrato ampiamente che la sola arma della diplomazia non basta. C’è una parte di confronto muscolare, misurato sul terreno dello scontro armato, che deve essere consumata per stabilire i rapporti di forza tra le parti in conflitto. A riguardo, è incomprensibile la posizione del nostro Governo che si ostina a escludere l’opzione dell’intervento militare, anche solo in funzione d’interposizione tra le parti in conflitto. Si tratta dell’ennesimo colossale errore di una politica nostrana che a tutte le latitudini partitiche mostra di non avere sufficiente spessore per stare sulla scena internazionale alla pari con altri Stati ben più determinati nel fare valere i propri interessi.

Molto si è criticato il comportamento ambiguo della Francia sulla questione libica. Ma vanno riconosciute all’inquilino dell’Eliseo, Emmanuel Macron, coerenza e tenacia nel perseguire la strategia di sostegno ad Haftar contro al-Serraj. La presenza di consiglieri militari francesi al fianco del Libyan Arab Arm nell’assalto a Tripoli e il fatto di aver posto il veto in sede Ue ad una mozione di condanna all’offensiva del generale Haftar ne sono le prove. Al contrario, a Roma i leader della maggioranza si cappottano in un assurdo testa-coda sulla polemica dei porti da tenere chiusi o aperti nel caso si verificasse una fuga in massa di civili dalla Libia. Insomma, si litiga sul come affrontare l’eventuale problema a valle, negando la possibilità d’intervenire a monte perché la catastrofe non si determini. Qui non ci sono classifiche da fare sulle poche diottrie di leghisti e grillini. Sbagliano entrambi ad ignorare il dato fondamentale: una Libia strappata all’influenza italiana renderà più precaria la sicurezza dell’Italia a prescindere dal numero degli immigrati che proveranno a sbarcare sulle sue coste.

Ieri il premier Giuseppe Conte ha incontrato il braccio destro di al-Sarraj, vicepresidente del Consiglio presidenziale Ahmed Maitig e il ministro degli esteri del Qatar, Mohamed al Thani. Presumibilmente entrambi gli emissari hanno chiesto lumi sulla posizione del Governo italiano. Giuseppe Conte, in conferenza stampa, ha ribadito che l’Italia è per il cessate-il-fuoco immediato e il contestuale ritiro delle truppe di Haftar dalla Tripolitania. Ma è ipotizzabile che gli interlocutori abbiano sollecitato un sostegno più concreto nel caso, abbastanza prevedibile, che l’appello a deporre le armi cada nel vuoto. La domanda che rivolgiamo al premier è la seguente: se Haftar ci ignora, che si fa? Si resta a guardare impotenti il precipitare della situazione? Reagire non significa andare a immischiarsi in una guerra che non potremmo combattere ma marcare una presenza fisica, sotto forma di difesa degli interessi italiani in loco e dei siti sensibili; di soccorso nel quadro dell’emergenza sanitaria; di protezione umanitaria delle popolazioni civili bombardate e degli immigrati presenti nei campi di trattenimento nell’area della Tripolitania.

Non abbiamo bisogno che qualcun altro benedica una nostra iniziativa, è ora che almeno in Libia qualcosa, pur in ossequio agli indirizzi dati dalle Nazioni Unite, la si faccia da soli. Tanto meglio se qualche alleato che in un primo tempo aveva deciso di sfilarsi dalla partita stia rivedendo le sue posizioni. In tal senso, le notizie diffuse dall’Agenzia Nova sul ritorno nel Mediterraneo dell’Abraham Lincoln Carrier Strike Group, il gruppo d’assalto della Marina degli Stati Uniti “comprendente la portaerei Uss Abraham Lincoln classe Nimitz quale nave ammiraglia, il Carrier Air Wing 7, l’incrociatore lanciamissili classe Ticonderoga Uss Leyte Gulf e il cacciatorpediniere del Destroyer Squadron 2” è un chiaro segnale da parte di Washington di volere farsi trovare pronti a intervenire qualora gli eventi lo richiedano.

Resta il fatto che dove tutti gli altri hanno fallito l’Italia ha acquistato credibilità non chiudendo, nel momento critico, la propria ambasciata a Tripoli e non evacuando i militari presenti nell’area di Misurata per la missione bilaterale Miasit. La decisione dei rappresentanti Onu di annullare la conferenza di pace prevista questa settimana presso l’oasi di Ghadames lascia maggiore spazio all’iniziativa diplomatica italiana. A patto però che dal nostro Paese giunga un segnale forte di presenza e di volontà di restare centrali nella soluzione della crisi. E tale segnale, comunque la si rigiri, non può che essere notificato alle parti interessate da truppe armate inviate sul teatro degli scontri.

Ai portatori insani di pacifismo, ai fans del dialogo politico anche quando nessuno ascolta, ai figli putativi dei figli dei fiori sessantottini che prosperano nella politica nostrana, ci permettiamo di ricordare l’insegnamento del generale prussiano nonché autore di un illuminante trattato sull’arte della guerra, Carl von Clausewitz, il quale scriveva: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”. Chiaro il concetto?

Aggiornato il 17 aprile 2019 alle ore 10:46