Cinque Stelle: ritorno al futuro

La firma del “Memorandum of Understending” tra l’Italia e la Cina somiglia a quel vino che appena degustato si mostra leggero e frizzante al palato, ma col passare delle ore prende alla testa e appesantisce la digestione. Quando ciò accade si sentenzia che il vino non sia di buona qualità. Dovremmo dire lo stesso del patto cucito sulla Via della Seta? Siamo ancora ai primi sentori, tuttavia qualche nota sgradevole si comincia ad avvertire.

Arturo Diaconale, nell’editoriale di ieri, ne fa una questione di congiunzione astrale. Ci sta. Giacché noi tutti, epigoni o semplici testimoni oculari della Prima e della Seconda Repubblica, non possiamo non dirci un po’ andreottiani, siamo autorizzati a pensar male. Il “peccatuccio” che il nostro direttore si concede è di sospettare che la Via della Seta, intrapresa con ardore da Luigi Di Maio e dal circolo dei “governativi” grillini, sia foderata di mazzette e creste sugli affari d’oro messe in conto al gigante cinese. Dunque, nel futuro vi sarebbe una Pechino ad uso grillino, revival della Mosca sovietica che inondava di rubli le casse del Partito comunista italiano ai tempi della Guerra fredda. Nell’ipotesi di Diaconale la finta virtù dei pentastellati resterebbe confinata agli spazi di casa nostra, mentre in Estremo Oriente Luigi Di Maio e compagni ritroverebbero quella disinvoltura nel lasciarsi traviare che in patria, per ipocrisia, terrebbero repressa. Può darsi che nella prospettiva grillina la congiunzione astrale col dragone cinese sia propiziatoria di dazioni illecite di denaro.

Tuttavia, nel mare incognito delle ipotesi, è possibile pensare che vi possa essere dell’altro di più pericoloso e inquietante rispetto a cui intascare una mazzetta sarebbe meno di una marachella. Potrebbe essere che il patto sulla via della seta sia l’incipit di una riconfigurazione totale del modello di sviluppo italiano in coerenza con la visione del mondo scaturita da una variante “new age” della filosofia pentastellata. Dietro l’apertura al sistema di potere cinese vi sarebbe la volontà grillina di essere ammessi da coprotagonisti alla gigantesca partita sull’innovazione del digitale che si prepara in Estremo Oriente. La chiamata nella stanza dei bottoni dei costruttori di futuro costerebbe al sistema produttivo italiano l’abbandono del manifatturiero tradizionale a basso contenuto tecnologico alla concorrenza predatoria del gigante cinese. Ciò spiegherebbe molto delle scelte di governo grilline in apparenza antistoriche.

Il filosofo liberale Corrado Ocone nell’articolo “E se Luigi Di Maio sul Movimento 5 Stelle non avesse tutti i torti?“, pubblicato su Formiche on-line, solleva la questione. Quindi, l’arcaicità delle idee grilline sul progresso altro non sarebbe che la premessa all’avvento di un’età dell’intelligenza artificiale che rimpiazzerebbe, nel divenire della civiltà occidentale, l’età del ferro e del mattone alla quale apparteniamo. Scrive in proposito Ocone: “Oltre al protagonismo su scala internazionale, credo poi che il Movimento si giocherà anche la carta dell’innovazione, soprattutto quella legata al digitale… A quel punto, l’immagine di partito antimoderno, trasmesso ad esempio dalla battaglia sulla Tav, si smorzerebbe alquanto: anzi le infrastrutture classiche sembreranno agli occhi dei più, e soprattutto dei giovani che votano già oggi il Movimento, come qualcosa di infinitamente arcaico rispetto a chi vuole per l’Italia un ruolo all’avanguardia nelle frontiere dell’Intelligenza artificiale”.

Se avesse ragione Corrado Ocone vorrebbe dire che in passato sia stato colpevolmente sottovalutato il peso del profetismo visionario di Gianroberto Casaleggio. La politica politicante si è accontentata di derubricare l’oggetto Cinque Stelle a opera buffa, palcoscenico di periferia per una massa d’improvvisati, di scappati di casa, accidentalmente capitati sulla scena del delitto partitocratico. Probabilmente, si è sottovalutato il significato dell’investimento, voluto da Di Maio in finanziaria, per creare il Fondo Nazionale Innovazione (Fni). La dotazione iniziale è di 1 miliardo di euro. Il fondo sarà gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti che opererà attraverso il Venture Capital per “investimenti diretti e indiretti in minoranze qualificate nel capitale di imprese innovative con Fondi generalisti, verticali o Fondi di Fondi, a supporto di startup, scaleup e Pmi innovative”. Ma se l’orizzonte dello sviluppo è l’innovazione tecnologica perché allora il Governo giallo-blu avrebbe depotenziato il programma “Industria 4.0” voluto dal precedente ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda? Evidentemente perché ai grillini non interessa aiutare la manifattura tradizionale a rinnovarsi. Essi scommettono sul mondo del digitale e punto. Ciò spiegherebbe anche l’insolita agitazione che ha colpito i vertici di Confindustria. Dalle parti di Viale dell’Astronomia prevale il timor panico per una politica che si appresta ad affondare il galeone della tradizione manifatturiera nostrana per salpare con pochi agili vascelli hi-tech verso il nuovo mondo dell’intelligenza artificiale. Si dimentica, però, che il grosso dell’economia e della società italiana siano ancora botteghe e fabbrichette, genialità creativa combinata a manualità artigianale, piccoli imprenditori e operai saldati all’azienda e al territorio come ad un unico apparato radicale. Sarà pure un paradiso quello promesso dai grillini, ma non è casa nostra.

Ciò che Luigi Di Maio e Davide Casaleggio, continuatore dell’utopia paterna con altri mezzi, non hanno considerato a dovere è che il tratto strutturale dell’italiano medio sta nel cercare di vivere con soddisfazione il presente piuttosto che complicarsi la vita a immaginare il futuro. Ma la perdita di contatto con il sentire del Paese pone ai grillini un serio problema di rappresentanza, già adesso riscontrato nei carotaggi random effettuati sulle intenzioni di voto connesse agli esiti delle consultazioni regionali. Giorno verrà per il redde rationem. E sarà di maggio?

Aggiornato il 29 marzo 2019 alle ore 11:06