La verità scientifica nell’economia

venerdì 22 marzo 2019


Se il buon Popper ha ragione, se cioè una teoria risulta scientifica quando è falsificabile, cioè confutabile, e può venir contraddetta dai fatti, l’economia, che proprio scientifica non è mai stata considerata, assurge popperianamente alla più adamantina scientificità, sebbene soltanto in alcune sue “leggi”, sulle quali si accapigliano gli economisti di professione.

Quando l’economia investiga i prodotti dell’azione, non dell’intenzione, dell’essere umano, avanza sul terreno solido della conoscenza razionale. Al contrario, se ne allontana e scivola in una sorta di metafisica ammantata da scienza  quando accantona il presupposto che, affidandosi ai propositi, gli uomini sono imprevedibili e assume di poter ricavare “leggi” che inglobino l’imprevedibilità. Due esempi clamorosi, seppur diversi, di tali scienziati sono i mostri sacri Marx e Keynes. Il primo aveva preteso di scoprire il socialismo, appunto, scientifico e addirittura l’ineluttabilità storica del comunismo, deterministico stadio finale dell’evoluzione della società. Bum! Il secondo, senza raggiungere un’eguale vetta d’improntitudine, era convinto d’aver individuato il meccanismo risolutivo delle crisi economiche, come un orologiaio che scovi un infallibile bilanciere capace di spaccare il secondo, e invece pose nelle mani dei governanti un’arma per manipolare l’economia e conculcare la libertà, illudendoli di poter governare l’una non a scapito dell’altra. A fin di bene, ovvio!

Keynes inclinava a credere d’aver scoperto davvero la “legge” sull’occupazione, l’interesse e la moneta, un’equazione che nel mondo economico doveva equivalere alla formula E=mc² di Einstein nel mondo fisico. Egli scrisse che “tra le massime della finanza ortodossa (cioè liberale, n.d.r.) nessuna è sicuramente più antisociale del feticcio della liquidità”. La spesa pubblica era invece l’idolo di Keynes, una fede così attrattiva da trovare adoratori d’ogni tendenza, mentre la si dovrebbe abiurare per motivi che, paradossalmente, echeggiano quelli che egli stesso efficacemente prospettò per dileggiare il collettivismo: “Il socialismo marxista deve restare sempre un’indicazione profetica per gli storici delle idee circa il come una dottrina tanto illogica e ottusa possa aver esercitato una così potente e duratura influenza sulle menti umane e, tramite esse, sugli eventi storici”.

Sia chiaro, nessuno si sogna di mettere sullo stesso piano, per essenza e conseguenze, marxismo e keynesismo. Eppure entrambi i pensatori sono parte integrante di quelle filosofie perfettive che pretendono d’individuare soluzioni assolute una volta per sempre: chi più, chi meno radicalmente, essendo poi smentito dai fatti e perciò, popperianamente, falsificato. Reagiscono, sbagliando, a uno stato di cose del quale credono di aver svelato la nascosta “legge” sottostante. Costoro si sentono scienziati nell’accezione più pura del termine. E di fatto  lo sono davvero, perché le loro teorie sono state falsificate, come il geocentrismo.

Anche il keynesismo, dunque, deve restare sempre un’indicazione profetica per gli storici delle idee e gl’interventisti acritici circa il come una dottrina meccanicistica e occasionale possa essere assurta a “legge” ed aver esercitato una notevole e perdurante influenza sulle menti di governanti eterodossi e, tramite esse, sull’attecchimento nel popolo dell’illusione di poter insieme acconciare durevolmente  l’economia, a piacimento, scampandone l’inevitabile vendetta.

Mentre il collettivismo marxista ha fallito perché totalmente costruttivista, cioè cervellotico, antievoluzionista, innaturale, il keynesismo rappresenta un fallimento settoriale perché non rivolta la società dalle fondamenta, ma sottilmente legittima l’applicazione al volano dell’economia reale di una controspinta finanziaria che ne adultera e squilibra la funzione propria di mantenere e regolare il moto naturale dello sviluppo nel tempo. È fomite di crisi proponendosi la stabilità. Keynes, tra il serio e il faceto, ebbe l’imprudenza di scrivere una frase che l’ha reso forse più famoso di tutti i suoi libri: “Il lungo periodo è una guida fuorviante per gli affari correnti. Nel lungo periodo saremo tutti morti” (corsivi suoi!). Questa frase, tanto infelice quanto espressiva della matrice profonda del suo pensiero, viene tuttora ripetuta a pappagallo da politici ed economisti per accaparrarsi, in buona o mala fede, i favori del breve periodo, alla stregua di cattivi genitori che dissestano ed indebitano il bilancio familiare come se la vita finisse con loro, magari facendo felici i figli al momento mentre ne preparano la rovina a lungo andare, nel lungo periodo, anche senza averne l’intenzione.


di Pietro Di Muccio de Quattro