Coltivare il proprio orto: no alla delocalizzazione, sì al declino

Legare i marchi al territorio? La proposta a prima vista appare molto attraente, per un Paese che di marchi “storici” ne ha a bizzeffe. Ma è in realtà assai dannosa - anzitutto per coloro che in teoria vorrebbe tutelare. Il tema è tornato alla ribalta quando, sulla scia del “caso Pernigotti”, il vicepremier Matteo Salvini ha rilanciato una proposta di legge già depositata alla Camera, relativa all’istituzione dei “marchi storici”. I titolari di tali marchi, a fronte di taluni e non meglio precisati vantaggi, avrebbero l’onere di mantenere la parte principale delle loro produzioni negli stessi luoghi in cui storicamente operano. Si tratta di un tentativo di contrastare i fenomeni di delocalizzazione, specialmente quando l’acquirente straniero acquista un’azienda italiana il cui valore risiede, appunto, nel brand, più che nella produzione. La norma è mal scritta e ambigua, e verosimilmente non supererebbe il vaglio di costituzionalità nelle parti che sembrano alludere alla “nazionalizzazione” e riassegnazione del marchio in caso di delocalizzazione. Ma fingiamo, per amor di discussione, di prenderla sul serio. Due considerazioni s’impongono

La prima è di merito. I potenziali vantaggi di breve termine per i detentori di marchi storici rappresentano una ingiustificata distorsione della concorrenza. Chi ha un brand forte ha già, in partenza, un vantaggio competitivo: la riconoscibilità. I concorrenti devono superare questa barriera, per poter conquistare fette di mercato. Che senso ha rendere la vita ai concorrenti ancora più dura, rafforzando la posizione degli incumbent? Il mercato, quando funziona bene, produce un processo di “distruzione creatrice”: ma non può esserci creazione senza distruzione. Il progresso sociale è pieno di “ marchi storici” caduti in disuso. Ancora peggiori possono essere le conseguenze della norma sulle imprese in difficoltà. Il valore di mercato di un’impresa che abbia un brand di valore, ma che tale brand non possa cedere, inevitabilmente crolla: il risultato, quindi, è che per prevenire la delocalizzazione domani, si rischia di accelerare il fallimento oggi. Infatti, chi mai vorrà subentrare nella gestione di uno stabilimento o acquisire un’impresa, se parte del suo valore immateriale rischia di andare perduto?

Ma, dietro questa proposta di legge e al di là dei suoi ovvi limiti, c’è un problema più vasto. La retorica sulle delocalizzazione - dall’istituzione del fondo antidelocalizzazioni all’inizio del 2018 fino ai provvedimenti adottati e minacciati più di recente - è lo specchio di un Paese che ha rinunciato al futuro. Un Paese che pensa di poter tutelare l’occupazione solo impedendo alle aziende inefficienti di andarsene, e a quelle dedotte di chiudere. Pensare che l’unica possibilità occupazionale nasca dalla gestione delle crisi significa abdicare alla possibilità di attirare capitali e imprese: significa, cioè, rinunciare a fare dell’Italia un Paese attrattivo. C’è insomma un filo rosso che unisce Pernigotti e Alitalia, ossia la convinzione che nessuno investirà nel nostro Paese e che, dunque, bisogna impedire a chi c’è di andarsene. Curare i sintomi anziché le cause dei problemi non è mai una soluzione. In questo caso, rischia di rendere il male ancora più profondo.

Aggiornato il 21 marzo 2019 alle ore 11:04