Governo del fare o del rinvio?

Prendiamo la Tav, ma non solo. Ci si chiede se continueranno o meno le schermaglie in corso e se il Governo presieduto da Giuseppe Conte stia, come si dice nel gergo politico, prendendo tempo. E subito un’altra domanda sovviene a proposito dell’eventuale, anzi imminente, risposta (alle Europee) degli elettori, in modo particolare della Lega, a questa sorta di temporeggiare, fra i sì e i no, fra il ci sto e il non ci sto, fra il dire (tanto)e il fare (poco) del suo magico duo (o trio) a Palazzo Chigi del quale a Matteo Salvini si attribuiva l’antica definizione milanese dialettale del: “faso tuto mi”. Prima, ma ora?

Prendiamo Lombardia e Veneto, luoghi da sempre deputati agli allori elettorali leghisti e su cui non pochi analisti pongono occhi, orecchie e verifiche in riferimento al trend di Salvini che, osservato ora dai risultati brillanti di un 42 per cento del 4 marzo 2018, non sembra tuttavia conservarli, almeno secondo gli ultimi sondaggi (Nasi-ItaliaOggi). Ove si narra, sempre sondaggisticamente parlando, di una predita di non poco conto, intorno al 33 per cento e proprio in un bacino elettorale per dir così fedele al vecchio-nuovo partito bossiano, fermo restando, tuttavia, che il trend dell’altra Italia non mostra affatto cedimenti. In sostanza l’elettore tipo leghista: lavoratore, non laureato, cultura media, cattolico, sembra deluso dalla mancanza di politiche economiche del Governo Lega-Movimento Cinque Stelle.

Simbolizzato anche e soprattutto da quella vicenda Tav che nel rimbalzo del fare e non fare sta mostrando non soltanto le incertezze di un Esecutivo, forse unico al mondo, di un’alleanza degli opposti, ma i limiti di un’azione di Governo sbandierato quotidianamente come negazione di qualsiasi ricordo dei governanti di prima in nome e per conto delle favolose realizzazioni giurate e spergiurate dal nuovo che avanza. O che rinvia?

Bandiere, vessilli e proclami in nome e per conto non solo di una sorta di rivoluzione ab imis di stampo grillina, ma anche delle muscolose e irrinunciabili proposizioni salviniane delle quali spiccano, sullo sfondo di modestissimi risultati, i primi piani televisivi di un “vice” sempre in giro per il Paese, tanto da meritarsi i pochi ma autorevoli rimbrotti per le sue massicce assenze dal (suo) ministero degli Interni. Presenze mediatiche in un certo senso obbligate nella concorrenza con l’instancabile cursus televisivo di un Luigi Di Maio cui non rimproveriamo il detto che di un ben tacer non fu mai scritto, ma, e forse in peggio, di un parlare troppo, lasciandosi spesso prendere dal vezzo delle frasi fatte secondo un gioco, alla fine pericoloso, di credere alle stesse.

Un inganno o autoinganno che impedisce sia la concretezza del cosiddetto fare, sia il ricordo dei peraltro non lontani proclami di un “no”, come quello per la Tav che è stato il leitmotiv della loro campagna elettorale con Beppe Grillo e Alessandro Di Battista tuonanti nelle piazze, ma ora, a quanto pare, relegati in una sorta di prepensionamento che non significa abbandono tout court ma, come si sussurra, può prevedere il possibile rientro, correntizio o meno, di una componente storica per ora finita all’angolo come ha voluto e deciso il nuovo atto costitutivo dei Cinque Stelle. Passati, secondo i sondaggi, dal 32 per cento dell’ultima competizione elettorale, ad un più che modesto 23 per cento attuale.

Il fatto è che i pentastellati non essendo un partito della tradizionale gauche godevano della scelta di un’opposizione pura, nuda e cruda contro tutto e contro tutti. Che ha sedotto molti italiani in nome di una demagogia, di un populismo ora di destra ora di sinistra sventolante innanzitutto la bandiera dell’onestà contro i corrotti e, insieme, il vessillo dell’imminente, inesorabile, mitico cambiamento rispetto al fallimento anche della Seconda Repubblica. Ma ora gli italiani ci credono sempre di meno perché il cambiamento non c’è. E non è a caso che Silvio Berlusconi replichi seccamente giorno dopo giorno a simili invettive rilanciando la palla in un campo dove non soltanto non si fanno dei goal, ma si perde, si parla a vanvera, si promette a destra e a manca, non si danno risposte degne di questo nome.

Insomma, è il Governo del rinvio. Sine die?

Aggiornato il 19 marzo 2019 alle ore 11:08