Lo “sblocca cantieri”, la linea del Piave pentaleghista

Inutile girarci intorno, la vita o il tramonto del Governo pentaleghista dipendono da un unico fattore risolutivo: la crescita del Prodotto interno lordo. La questione è semplice, se i giallo-blu riusciranno a incrociare la ripresa economica resteranno alla guida del Paese per molti anni e non li fermerà neppure la Madonna pellegrina. Se, invece, non porteranno il Paese fuori dalla stagnazione economica in cui è precipitato dal secondo semestre dello scorso anno andranno a casa senza neanche il tempo di fare le valigie.

Ora, non è che la ripresa piova dal cielo. C’è bisogno che, a monte, vi sia un’azione di governo che la stimoli. Finora, l’impressione che questo Esecutivo ha dato di sé giustifica un realistico scetticismo. D’altro canto, era noto a tutti il presupposto ideologico del grillismo. Il comico Beppe Grillo, suo ispiratore, ha girato l’Italia diffondendo la parabola della decrescita felice, trascurando però di avvertire le platee acclamanti che l’Italia, con o senza i Cinque Stelle, sarebbe rimasta una democrazia avanzata dell’Occidente capitalista. Tale impronta è stata traslata nel Governo giallo-blu, nonostante la palese diversità culturale tra i due partner di coalizione: granitici nel contrastare gli investimenti pubblici i gialli grillini, pragmatici, dialoganti, aperturisti i blu leghisti. È noto che la diagonale di governo sia la risultante di due forze concorrenti che si muovono in direzioni diverse. E quella diagonale tra i campi di forza giallo-blu ha avuto un nome e cognome: Paolo Savona. Il grande economista, all’atto di accettare di far parte della compagine governativa, ha consegnato ai suoi giovani amici una lezione di alta politica. Savona ha spiegato a grillini e leghisti che per fare politiche economiche espansive avrebbero dovuto puntare sul rilancio della domanda aggregata interna che significa maggiori consumi e, soprattutto, incremento degli investimenti pubblici. Mentre i leghisti si sono prontamente riconosciuti nelle indicazioni date da Paolo Savona, i grillini hanno faticato un po’ per giungere alla conclusione che la promessa fatta da Beppe Grillo in campagna elettorale di riportare il Paese a una mitica età dell’oro preindustriale era un ballon d’essai. Fin dal primo giorno di vita di questo Governo la componente dei Cinque Stelle ha intrapreso un percorso di revisione segnato da alcuni importanti dietrofront. Dal No al gasdotto Tap sulle spiagge leccesi, alla chiusura dell’Ilva in Puglia e all’acquisto dei cacciabombardieri di fabbricazione statunitense F-35 si è passati ad altrettanti Sì. Così come un “si faccia” ha preso il posto di un No iniziale alla variante del terzo valico in Liguria. Ovvio che un processo di riposizionamento ideologico richieda tempo per cui se sul Tav Torino-Lione al momento sembra prevalere ancora un No, reminiscenza del passato paleo-ambientalista del MoVimento, tra qualche mese, completato il processo di maturazione, arriverà un convinto Sì all’opera.

Il fatto è che di sì non bastano due o tre ma ne occorrono almeno 300, quante sono le opere pubbliche per le quali ci sono soldi stanziati ma non si riesce a piantare un chiodo nel muro per colpa della farraginosità della Pubblica amministrazione. Anche i Cinque Stelle hanno compreso che l’asso manica per vincere la scommessa della ripresa e fermare il macigno della clausola di salvaguardia Iva, del valore di 23 miliardi di euro, che rotolerà sulla prossima manovra finanziaria, è la spinta al Pil che proverrebbe dalla riapertura dei cantieri. Da un report realizzato dall’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori edili, sul tavolo del ministro delle Infrastrutture già dalla scorsa estate, si apprende che ci sono 270 opere bloccate che valgono 21 miliardi di euro. Non si tratta soltanto di grandi infrastrutture del comparto viario e della mobilità. In elenco compaiono scuole, acquedotti, dighe e sistemi di prevenzione idrogeologica da ammodernare e mettere in sicurezza. I denari ci sono ma le procedure troppo complicate hanno ingessato il sistema. Si stima che la ripartenza immediata delle principali grandi opere infrastrutturali, se ne contano 27, genererebbe valore aggiunto per 90 miliardi di euro e una ricaduta occupazionale per 400mila nuovi posti di lavoro tra diretti e indotto. Il masso che ostruisce la strada all’accelerazione dell’azione di governo si chiama “Codice degli appalti”, la cervellotica elaborazione affetta da burocratismo compulsivo, partorita dal Governo di centrosinistra a guida Matteo Renzi. Fin quando sarà in vigore il “Codice” sarà difficilissimo tirare su un’impalcatura. Ragion per cui il Governo giallo-blu si accinge a neutralizzarlo attraverso il Decreto legge cosiddetto “sblocca cantieri” di cui è stato annunciato l’approdo in Consiglio dei ministri per l’approvazione entro la prossima settimana. Non siamo alla panacea ma potrebbe essere un buon inizio a patto però che il provvedimento in via di definizione non sia l’ennesima presa i fondelli dell’opinione pubblica. Se c’è stata una costante che ha unito, negli anni della Seconda Repubblica, i governi di centrodestra e di centrosinistra è il fatto che nessuno di loro si sia fatto mancare un personale decreto “stop alla burocrazia” che, discusso, votato, pubblicizzato, puntualmente è rimasto lettera morta. Probabilmente perché il potere burocratico in Italia è duro a morire.

Oggi l’orientamento dell’Esecutivo è di fare largo ricorso alla figura del commissario ad acta non solo per velocizzare le procedure amministrative per le opere di pubblico interesse. Si ricorrerà alla nomina di commissari nei casi di inchieste giudiziarie in corso, fallimenti delle imprese appaltatrici, ritardi nella progettazione. Altro miracolo della biologia applicata alla politica: i giustizialisti grillini che si trasformano in fautori della semplificazione. Fino a ieri sarebbe stato un ossimoro accostare il grillismo allo snellimento delle procedure pubbliche. Per fugare ogni sospetto di ritorno a un passato di movimentismo antisistema, Lugi Di Maio sbandiera ai quattro venti il suo nuovo pensiero riformato. Tutto giusto, tutto bello ma al momento sono chiacchiere. L’Istat, che misura trimestralmente l’andamento del Pil, attende fatti concreti per cancellare il segno negativo della mancata crescita economica nel 2019. Si spera non invano.

Aggiornato il 15 marzo 2019 alle ore 10:53