Salvini vince, resa dei conti nel M5S

Il trio del centrodestra vince le elezioni abruzzesi. Il centrosinistra perde ma sopravvive con un Pd che comunque non risolve le sue grandi e gravi difficoltà. Cinque anni fa aveva vinto il centrosinistra con quasi il 47 per cento, oggi ha vinto il centro destra con il 48 e, come si dice, la ruota gira.

La Lega Nord raddoppia e il M5S si dimezza. Il movimento di Luigi Di Maio, neoleader con ascesa ex abrupto a Palazzo Chigi, aveva preso quasi il 40 per cento alle Regionali del 2014 e oggi si è fermato sotto il 20 per cento e in valori assoluti è andata anche peggio; da 288.834 voti è passato a 118.287 anche se il confronto fra elezioni diverse è comunque problematico.

Il voto conferma l’ascesa di Matteo Salvini a protagonista della politica italiana e costringe i pentastellati a prendere e a portare a casa una storica batosta alle urne nelle quali un dato che li riguarda e li dovrebbe colpire al cuore (posto che ce l’abbiano) attiene alla più vera motivazione dell’insuccesso: l’astensione, il rifiuto, un dissenso non gridato ma in un certo senso ragionato. E che farà indubbiamente ragionare la centrale di Casaleggio che, da padre in figlio, era stata abituata dai successi.

Si dice, chi perde va a casa. E chi vince? Questo è il problema. Anche di Salvini. Intendiamoci, come s’è scritto e detto ampiamente, la sua è una vittoria su cui non ci piove, un successo pieno, un’ascesa squillante. Forse troppo. Non tanto e non solo per aver lasciato il secondo a una distanza più che ragguardevole, ma per una serie di motivi per dir così interni alla sua alleanza, non ultimo quello che riguarda Forza Italia, cioè Silvio Berlusconi.

Certo, si trattava di un’elezione di carattere regionale e bisognerà attendere la Sardegna per un discorso più completo, tanto più che la Forza Italia berlusconiana va misurata in una competizione politica. Qualcuno potrebbe chiosare: appunto.

Appunto, le Politiche, delle quali il parlare salviniano di queste ore nega autorevolmente l’anticipo assicurando l’alleato che al governo non cambia niente, nessun rimpasto, andiamo avanti così, e seccamente rinvia l’appuntamento con le urne a quella scadenza naturale che proprio perché appare così lontana nel calendario normale, fa sentire la sua voce discordante in quello politico. Che conta più dell’altro.

Confrontatosi nella filosofia (e prassi) della non politica, il movimento di Beppe Grillo e il suo popolo sconta le facili illusioni di quella opposizione sempre e comunque contro i poteri forti, cioè chi governa, fingendo di non essere diventata un elemento portante proprio di quel sistema, di quei poteri, scambiando la fantasia, anche dei posti, con la realtà delle cose che la politica impone, soprattutto a chi governa, e senza fare sconti. Cosicché il disastro Abruzzo, con un Giuseppe Conte che tenta di puntellare il governo, vede Luigi Di Maio come imputato, i suoi parlamentari chiedono immediatamente un’assemblea, il suo popolo fa scattare in Rete la rivolta mentre la base si schiera contro lo stato maggiore mettendo, ora discorsivamente ora fermamente, un accento critico su un’alleanza che ha giovato soltanto al collega leghista di Palazzo Chigi.

Il Governo, dunque, con un Salvini che ha tutta l’aria di voler fare il bello e il cattivo tempo con i video sempre a sua disposizione ma con i non pochi dossier caldi che lo attendono e che nessuna battuta presa al volo dai compiacenti telereporter può risolvere, semmai rinviare anche se va avanti la super-questione indipendenza della Banca d’Italia e organismi di controllo, ed è più viva che mai la Tav coi suoi conti e riconti, e sono comunque da placare i rapporti con la Francia e c’è sempre una recessione con cui fare i conti e, last but not least proprio nella parabola salviniana, si avvicina la data della autorizzazione parlamentare a procedere. No problem, vanno ripetendo quotidianamente gli alleati, traquillizzatori di una maggioranza che, dopo queste elezioni ancorché regionali, non sembra così forte e robusta.

Aggiornato il 15 febbraio 2019 alle ore 11:58