Cambiare l’Ue: se non ora quando

Chi l’avrebbe detto che il colpo definitivo alle politiche europee improntate all’austerity l’avrebbe inferto non un rozzo sovranista ma il capo in persona della Commissione europea. Jean-Claude Juncker l’altro ieri ha colto l’occasione della celebrazione solenne, presso l’Europarlamento, del ventennale della moneta unica, per esibirsi in un’insolita autocritica. Il presidente della Commissione si è spinto a dire che nella crisi del debito pubblico greco, esploso nel 2010, “c’è stata una austerità forse un po’ avventata” della quale anch’egli si ritiene responsabile visto che all’epoca presiedeva l’Eurogruppo. Come direbbe un astronauta appena approdato sulla luna, l’ammissione di colpa da parte di Juncker è un piccolo passo per l’individuo ma un grande passo per l’umanità. L’aver accostato al sostantivo austerità l’aggettivo avventata porta alla luce la consapevolezza di un gap tra due visioni dell’Europa destinate a non coesistere a lungo. Prima o poi una delle due dovrà soccombere all’altra e l’ordalia è appena cominciata.

Negli anni della Germania merkelliana, che hanno coinciso con quelli della crisi economica globale, i comportamenti concreti dell’establishment comunitario erano subietti alla volontà di potenza della “nazione dominante”. L’imperativo imposto da Berlino al quale bisognava attenersi si focalizzava sull’esigenza di tenere sotto stretto controllo la stabilità monetaria che avrebbe dovuto prevalere su qualsiasi idea espansiva delle economie nazionali da perseguire per il tramite del maggior indebitamento degli Stati. Il varo del “Fiscal Compact”, cioè del “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione europea”, firmato da 25 Paesi membri il 2 marzo 2012, può considerarsi il monumento all’austerità eretta a principio unificatore della comunità di Stati dell’Unione, in luogo della prioritaria promozione di un “progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile” finalizzato a “promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”. La crisi greca è stata il banco di prova per sperimentare l’efficacia delle politiche del rigore applicate a sistemi economico-sociali traballanti, se non eticamente corrotti perché portati a sperperare il denaro ben oltre la capacità di guadagnarlo. Una narrazione fasulla che, tuttavia, sembrava aver conquistato tutti, vittime e carnefici. Oggi si scopre che era tutto sbagliato, che il modo di approcciare la crisi greca fu avventato e dannoso per le popolazioni che si pretendeva di aiutare affamandole. Se fosse stata l’assemblea dei soci di un’impresa privata, anziché una seduta del parlamento europeo, sarebbe bastata una tale ammissione di colpa per spedire a casa gli amministratori con tanto di azione di responsabilità appiccicata addosso. Ma la politica è cosa più complicata.

Juncker fa adesso il mea culpa perché prova a fare argine, alla vigilia delle elezioni europee, all’avanzata travolgente dei movimenti sovranisti. Ma quanto è credibile in questa sua inattesa abiura? Poco o niente. Se volesse fare sul serio il presidente Juncker una possibilità di rimettere a posto le cose l’avrebbe, anche se parecchio in ritardo. L’occasione gliela fornisce l’imminente recessione economica innescata dal debito cinese e dal debito corporate Usa. Piuttosto che perseverare nella deflazione, il cui risultato immediato è la disgregazione del tessuto sociale dell’Unione europea, è giunto il momento di riscrivere le regole comunitarie. Lo facciano le attuali leadership dell’Ue, prima che arrivino a farlo a modo loro le orde sovraniste accampate alle porte dei palazzi del potere a Bruxelles. Non è necessario che si faccia tutto e subito, ma compiere adesso un primo passo potrebbe raddrizzare la traiettoria di questa Unione rispetto alla curvatura imboccata.

Prima che la crisi colpisca, la Commissione può assumere due provvedimenti d’immediato impatto: 1) Lo scorporo delle spese per investimenti dalla misurazione del rapporto Deficit/Pil a partire retroattivamente dai bilanci di previsione dei singoli Stati membri per il 2019; 2) Il via-libera alla Banca centrale europea a fronteggiare la speculazione finanziaria riaprendo l’ombrello protettivo sui titoli del Debito sovrano dei Pasi membri. Il rischio di crisi di liquidità derivata dal maggior costo dei servizi sul Debito ai Paesi con margini di deficit più elevati può agevolmente essere annullato dalla ripresa in forma strutturata e selettiva, cioè svincolata dagli obblighi di quantità e proporzionalità tra i Paesi membri, di quella funzione di lender of last resort che è stata consentita alla Bce nel recente passato per un arco limitato di tempo, chiuso alla fine dello scorso anno. Se il signor Juncker fosse persona sincera e coraggiosa lo farebbe, ma temiamo che non lo sia. Lo dimostra il fatto che anche la sua autocritica sia stata alquanto ambigua. Il trattamento vessatorio subìto dai greci, nella ricostruzione del presidente della Commissione, sarebbe colpa del Fondo Monetario Internazionale al quale l’Europa non avrebbe dovuto rivolgersi. “Mi dispiace aver dato troppa importanza all’Fmi. Se la California entra in crisi, gli Usa non si rivolgono al Fondo: noi avremmo dovuto fare lo stesso”, queste sono state le sue parole. Oltre le lacrime dov’è la volontà di cambiare?

Alla fine anche questo mea culpa a fatto compiuto si rivelerà un micidiale boomerang. I sovranisti di tutta Europa non dovranno sforzare le meningi per cercare altri argomenti per catturare il consenso. Sarà loro sufficiente in ogni occasione pubblica rileggere agli elettori i passi salienti dell’intervento di Juncker all’Europarlamento per convincerli della necessità di un cambio radicale di guida della casa comune europea. In fondo, mancherà a tutti quel rubicondo lussemburghese. Anche ai sovranisti che dopo averlo ascoltato, parafrasando Benedetto Croce, non potranno non dirsi junckeriani.

Aggiornato il 17 gennaio 2019 alle ore 13:25