L’obbligatorietà della legge

Dura lex sed lex. Così dicevano i giuristi del mondo antico, per significare che la legge non può essere disapplicata, anche se non se ne condivide il contenuto.

Nel nostro ordinamento, fondato sui principi dello Stato di diritto, neanche il giudice può disapplicare la legge, alla quale è soggetto, in forza di una precisa ed inequivocabile norma costituzionale. Se nella decisione di una controversia egli ha un dubbio sulla conformità della legge alla Costituzione, non può comunque disapplicare la disposizione legislativa, ma deve sospendere il giudizio e sollevare la questione di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale, unico organo che nei sistemi di giustizia costituzionale accentrati, come quelli dell’Europa continentale, ha il potere di annullare la legge.

Ma fino a che la Corte non abbia dichiarato l’incostituzionalità della legge o questa non sia stata abrogata o modificata dal Parlamento, la stessa dev’essere applicata. Tanto meno può disapplicare la legge la Pubblica amministrazione (e i Comuni sono espressione di essa a livello locale) che esprime la sua attività con atti amministrativi, subordinati alla legge, della quale, per loro natura, costituiscono applicazione o attuazione. Ecco perché la polemica di questi giorni è surreale. Nessun sindaco d’Italia (che, tra l’altro, è anche ufficiale di Governo) può violare o disapplicare la legge e se lo fa deliberatamente dev’essere rimosso come prevede il Testo Unico degli Enti locali, a prescindere dalle responsabilità penali per abuso d’ufficio in cui possa incorrere. Né di fronte ad una legge è ammissibile un’obiezione di coscienza per non applicarla, a meno che la legge stessa non preveda espressamente questa possibilità, come ad esempio per la legge sull’aborto.

Né è esperibile conflitto di attribuzioni né impugnazione diretta della legge da parte delle Regioni, essendo il primo inammissibile sulle leggi e, quanto alla seconda, rientrando l’immigrazione tra le competenze legislative esclusive dello Stato. Non può nemmeno imputarsi al Presidente della Repubblica di aver promulgato una legge incostituzionale. Intanto perché se l’incostituzionalità non è dichiarata dalla Corte costituzionale resta un’opinione, e come tutte le opinioni, può non essere condivisibile. Inoltre, quando il Presidente della Repubblica riceve una legge approvata dal Parlamento per la promulgazione può rinviarla alle Camere per motivi di merito costituzionale per un nuovo esame e una nuova deliberazione. Ma se queste la riapprovano deve promulgarla, a meno che non si tratti di alto tradimento o attentato alla Costituzione.

Non pare proprio che il cosiddetto “Decreto Sicurezza”, che in realtà è una legge approvata dal Parlamento, per quanto opinabile e criticabile, integri simili ipotesi ovvero un colpo di stato. Aggiungasi che, fuori da queste ipotesi estreme, il capo dello Stato, in una forma di governo parlamentare come la nostra, non risponde degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, dei quali assume responsabilità il Presidente del Consiglio ed i ministri competenti che li controfirmano.

Come si vede, la polemica politica in corso è mal posta da entrambe le parti e non può implicare atti con valide conseguenze giuridiche e costituzionali. Sia il Governo sia, soprattutto, i sindaci “renitenti” farebbero bene a chiarirlo al Paese, ai propri cittadini e ai propri uffici, per non accrescere la confusione e non confondere la politica con il diritto.

(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino

Aggiornato il 16 gennaio 2019 alle ore 10:36