Gilet gialli, una ribellione incompresa

I gilet gialli in Francia hanno ottenuto un primo successo. Dopo settimane di dura contestazione, che hanno visto Parigi messa a ferro e fuoco, il governo francese ha annunciato una moratoria sull’aumento delle imposte sui carburanti. Ma lo stop alla “carbon tax” è soltanto la prima delle rivendicazioni che il popolo delle periferie e della provincia ha portato in piazza. Altre ve ne sono che non fanno abbassare la tensione tra i manifestanti.

Ammettiamolo: le opinioni pubbliche europee sono state prese in contropiede dallo scatenarsi della protesta in Francia. Non si è compreso da subito che quello dato dai gilet gialli non sarebbe stato un segnale limitato alla politica nazionale, ma un “warning” destinato alle classi dirigenti continentali. Noi italiani, occupati come d’abitudine a contemplare il nostro ombelico come fosse quello del mondo, non ci siamo accorti di ciò che stava accadendo appena al di là del confine. Il circuito dei media nostrani ha derubricato la rivolta a semplice contestazione di piazza, mancando di cogliere il senso di qualcosa di molto più intenso, destinato a cambiare la storia perché affiorato in superficie dai sedimenti più profondi della società francese. È iniziata come risposta di piazza all’annuncio di aumento delle accise sui carburanti voluto dal governo per finanziare la transizione ecologica, quasi si trattasse di una rivendicazione parcellizzata di alcune categorie di lavoratori e di piccoli imprenditori, poi è dilagata in rivolta di popolo, in contestazione radicale alla visione del mondo imposta dalle élite.

Dal punto di vista storico-politologico, una tale evoluzione nella presa di coscienza della forza resistenziale delle masse è il primo tra gli indicatori d’incubazione di un processo rivoluzionario. Sta accadendo che le élite, espressioni di un sistema che ha assicurato a sé tutte le garanzie per godere al meglio del benessere prodotto dal combinato tra sviluppo economico e progresso scientifico, hanno deciso d’investire nella difesa del clima tout court caricando però il costo dell’inversione di marcia sulle spalle di un ceto medio già impoverito dagli anni di crisi economica globale. Penalizzare le tecnologie e gli strumenti obsoleti che non corrispondono all’istanza di riduzione d’impatto inquinante sull’ambiente è un lodevole proposito, ma a chi è concesso di cambiare repentinamente stili di vita senza subirne contraccolpi economici significativi? Ai ricchi, evidentemente, e a coloro che vivendo in contesti connessi grazie a sistemi intermodali complessi, come nelle grandi metropoli, possono fare a meno della mobilità tradizionale. Ma non al popolo delle province che non ha le medesime opportunità di collegamenti che hanno coloro che abitano le città. Il senso ultimo della rivolta sta tutto in una frase pronunciata da un manifestante: “Voi mi parlate della fine del mondo, io vi parlo della fine del mese”. Una sintesi perfetta che incornicia la divaricazione, cifra del nostro tempo storico, tra le élite e il popolo, tra l’alto e il basso della società che è storia rifluente di uomini contro. Una frattura che ha liberato frammenti di categorie sociologiche vissute nel passato: servi contro padroni, potenti contro deboli, ricchi contro poveri, possessori contro diseredati, nuovi capitalisti contro nuovi proletari, integrati contro emarginati.

Tuttavia, come in passato, anche in quest’occasione il manifestarsi di tale dicotomia non è fattore neutro. Al contrario, reca in sé una carica deflagrante la cui potenzialità distruttiva non è preventivamente misurabile. Quando il popolo ha fame si ribella. E la Francia, ben più di altre realtà statuali, conosce le conseguenze della sincope nella tenuta armonica dell’ordine sociale. È già accaduto, ma l’oggi presenta un’aggravante circostanziale. Dall’altra parte della barricata, al potere, non c’è una figura forte, uno Charles De Gaulle, in grado di opporre un argine di autorevolezza alla protesta. L’odierno inquilino dell’Eliseo, dopo i goffi tentativi di mostrarsi alle opinioni pubbliche occidentali con la maschera del novello Bonaparte, ha mostrato il vero volto che è quello del personaggio debole, partorito dalla costruzione in vitro di un modello di governante che avrebbe dovuto adattarsi a gestire le esigenze e i tempi della globalizzazione.

Emmanuel Macron si è svelato nella sua vera essenza: un politico che non ha risposte per la sua gente, che non capisce non sapendo coglierne i bisogni autentici e le ansie profonde. A ben vedere, il limite dell’esperimento “Macron” sconta il medesimo vulnus delle élite europee contemporanee: la mancanza di sintonia con il ventre della società. La Francia è tornata a patire l’arroganza di classi dirigenti che si rammaricano del fatto che la plebe non sappia apprezzare le salutari virtù delle brioches da consumare in alternativa al pane che manca. Già, perché baloccarsi oggi sulle pur ragionevoli questioni dell’ambientalismo preoccupandosi di cosa sarà del pianeta tra cento anni, suona alle orecchie dei disperati alla stregua del consiglio dato da Maria Antonietta al popolo affamato. La ribellione dei gilet gialli è contagiosa? Probabilmente non nell’immediato perché le peculiarità della frastagliata realtà europea sono tali da non contemplare il rischio di un effetto a catena della rivolta. Tuttavia, la miccia è stata innescata e, alla lunga, in presenza di effetti peggiorativi della condizione dei ceti medi continentali, non si può escludere che l’incendio francese possa propagarsi oltre confine.

Già una volta, era il “Maggio francese” del Sessantotto, si sentì risuonare la minaccia: “Ce n’est qu’un début, continuons le combat”. Ma allora la Contestazione andò a sbattere contro il pugno di ferro del presidente De Gaulle. Oggi è tutt’altra storia. Bisogna tenere l’orecchio incollato a terra, qualcosa arriverà.

Aggiornato il 05 dicembre 2018 alle ore 10:18