L’onda blu italiana macchiata di giallo

La conversione in legge del Decreto Sicurezza è passata al Senato con ampio margine di voti: 163 a favore, 59 contrari, 19 astenuti.

Dunque, Matteo Salvini, padre del provvedimento, ha vinto. Non una, ma due volte. Con una fava ha catturato due piccioni: è riuscito a imprimere una svolta securitaria alla gestione dell’accoglienza degli immigrati irregolari così come richiesto dalla maggioranza degli italiani stufi del lassismo buonista dei governi della sinistra, ma è anche riuscito nell’intento di far esplodere la prima seria crisi all’interno del Movimento Cinque Stelle. Quel “voto di fiducia” posto dal Governo alla fine della discussione parlamentare pesa come un macigno sull’immagine da monolite che finora i grillini hanno voluto dare di se stessi. Anche se cinque dissidenti non fanno una scissione, sono comunque un inizio promettente in vista della morte annunciata del partito “omnibus” che è riuscito nella non facile impresa di coprire tutte le parti in commedia miscelando all’interno dello stesso contenitore istanze politiche e ideali agli antipodi nella società. Doveva accadere che nel “Movimento” cominciasse lo smottamento ma fino ad oggi la politica mediocre delle opposizioni, fondata sul dileggio dei grillini, ha consentito agli autori dell’orecchiabile ritornello “onestà-onestà” di fare muro contro gli innocui nemici esterni. Ci voleva qualcuno che li stanasse con concreti atti di governo sui quali non è possibile barare. Salvini, appunto. L’aver posto la fiducia su una legge non per inchiodare l’alleato alle proprie responsabilità ma per crocifiggere se stessi alla realtà, per i grillini è stato un trauma.

Per ora sono cinque i dissidenti che hanno abbondonato la nave Cinque Stelle al momento dell’impatto con la votazione. Li ha guidati quel tal Gregorio De Falco già ufficiale della Guardia costiera, balzato agli onori delle cronache in occasione del maldestro naufragio nelle acque dell’isola del Giglio della nave da crociera Costa Concordia. Gli italiani lo ricordano per una colorita esclamazione che fece il giro del mondo. Quel “comandante salga a bordo, cazzo!” rivolto a un terrorizzato Francesco Schettino, capitano del gigante colato a picco, per una bizzarria del destino oggi si consegna alla storia personale del De Falco politico come una sorta di legge del contrappasso pentastellato che suona pressappoco così: “Senatore, ritorni a bordo, cazzo!”. Di là dall’ironia, resta il fatto che la crepa nel grillismo c’è e i dissidenti l’hanno resa visibile. Gli alleati leghisti non smetteranno di lavorare ad allargare il fronte di faglia registrato, non più solo dai sismografi dei media, all’interno del Movimento. Verrebbe da chiedersi il perché Salvini lo faccia. La risposta è nell’evolversi delle dinamiche politiche nelle società occidentali.

Basta guardare ai risultati delle elezioni di Midterm negli Stati Uniti, dove hanno vinto sia Donald Trump, che ha costruito una maggioranza repubblicana al Senato più affine al suo radicalismo che non al moderatismo da establishment del Grand Old Party (Gop), sia i democratici alla Camera dei Rappresentanti, che però incarnano un’idea politica di sinistra che non è quella elitaria clintoniana o dell’upper class bostoniana e newyorkese. Segno che dal Mediterraneo europeo all’Atlantico gli orientamenti delle opinioni pubbliche vanno sempre più polarizzandosi in opposti radicalismi, di destra e di sinistra. Salvini tale dinamica l’ha compresa per tempo, intuendo che l’esperienza col centrodestra tradizionale, come si è prodotta negli anni a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, non è più attuale. Esistono divaricazioni profonde tra il progetto sovranista degli antiglobalisti e la difesa a oltranza dell’europeismo nella versione recente germanocentrica non sufficientemente osteggiato da Forza Italia. La differenza di visione non può non riflettersi sulla politica domestica per cui è improbabile che Salvini voglia tornare sui suoi passi, qualunque cosa accada all’attuale governo. La verità è che al capo leghista del Nord il populista grezzo del Sud, Luigi Di Maio, piace. E, in prospettiva, il “Capitano” non esclude la possibilità che l’odierna alleanza di governo, varata in una fase congiunturale, possa acquistare in futuro carattere strutturale. Per conseguire l’obiettivo di una permanenza duratura alla guida del Paese, Salvini ha bisogno che il Movimento Cinque Stelle si liberi della componente progressista e movimentista. Perciò ha adottato la tattica della prova da sforzo che consiste nello spingere su provvedimenti fortemente divisivi per costringere gli alleati a far emergere le contraddizioni interne, e a risolverle per esclusione. Non passerà tempo che Salvini, incassato l’odierno successo, tornerà all’attacco spingendo su un'altra iniziativa foriera di dissenso tra i grillini. Probabilmente, sarà la riforma della legittima difesa l’oggetto del prossimo stress test a cui sottoporre l’alleato. Nel frattempo la Lega si prepara a concedere qualcosa ai Cinque Stelle per tenerli sulla corda senza tuttavia metterli con le spalle al muro.

C’è da scommettere che quel qualcosa riguarderà una riscrittura più commestibile delle norme sulla prescrizione del processo penale. Giusto per aiutare Di Maio a non perdere la faccia con i suoi. Per Salvini un blocco politico che includa una larghe parte dei Cinque Stelle, un nuovo partito di destra capitanato da Giorgia Meloni con pezzi sopravvissuti al naufragio di Forza Italia e la Lega, è possibile. Ciò che conta è che sia in grado di surfare sulla cresta dell’onda sovranista che sta attraversando la civiltà occidentale e che per altezza, profondità ed energia sprigionata impiegherà tempo prima di esaurirsi.

Aggiornato il 08 novembre 2018 alle ore 10:30