Salvate il soldato “dem”

Chiariamo un punto, benché avversari irriducibili della sinistra non facciamo salti di gioia se il Partito Democratico scompare dalla scena politica. Il motivo è semplice: una democrazia regge se alla maggioranza chiamata a governare faccia da contrappeso un’opposizione vigile ed efficace. Ma per come si sono messe le cose, sembra che il sistema politico italiano stia perdendo la bussola.

A fronte dei due partiti di governo che continuano a crescere nei sondaggi, indipendentemente da cosa facciano di concreto per gli italiani, si fa fatica a comprendere cosa combinino le opposizioni. Riguardo a Forza Italia e Fratelli d’Italia, una giustificazione per la sensazione di disorientamento che trasmettono ci sarebbe. La Lega, loro alleata, è in questo momento dall’altra parte della barricata per cui diventa oggettivamente complicato decidere di sparare ad alzo zero sull’Esecutivo. Si corre il rischio di colpire il compagno di strada con il quale si sta assieme nell’amministrazione di molti territori. Il Pd, invece, questo pretesto non lo può accampare. Nulla l’unisce ai due partiti che sostengono l’Esecutivo. Allora, perché non combatte? Sembra che i suoi dirigenti provino maggiore piacere a suonarsele di santa ragione tra loro piuttosto che ad assestare qualche colpo agli avversari. Non siamo buoni né generosi, siamo solo preoccupati di conoscere la sorte di quello zoccolo duro di elettori di sinistra che non si sposteranno mai a destra e che purtuttavia dovranno trovare una casa politica che li accolga. Il timore è che il rispettabilissimo popolo progressista si rivolga al Movimento Cinque Stelle il quale, moderno zelig, assorbe qualunque istanza sociale, da qualsiasi parte provenga. Certo, un travaso massiccio di voti da sinistra nel contenitore grillino ne modificherebbe gli equilibri interni. Se al momento l’ala destra impersonata da Luigi Di Maio sembra avere il controllo del movimento, un’iniezione robusta di progressisti anti-Lega e anti-Berlusconi non farebbe altro che rafforzare le componenti che fanno capo a Roberto Fico e Alessandro Di Battista con conseguenze devastanti sugli indirizzi di governo. Non che adesso la politica condotta da Di Maio ci piaccia. Ma, per chi è abituato a ragionare seguendo la massima: “Piuttosto che niente, meglio piuttosto”, sarebbe un pugno dritto allo stomaco dover subire un’ulteriore sterzata a sinistra dell’Esecutivo.

Si dirà: c’è sempre la Lega che può rompere il gioco. Non contateci. Matteo Salvini ha un progetto di lungo respiro. Per realizzarlo deve comprare tempo. Gli serve perché la maggioranza degli italiani, soprattutto del Sud, metabolizzi la sua filosofia comunitarista, antimondialista e rivendicazionista sul fronte della difesa identitaria della nazione. Una forzatura temporale rischierebbe di non essere capita dagli elettori e, inevitabilmente, sanzionata nelle urne della prossima primavera. Ciò spiega l’accorta tattica da stop-and-go che il leader leghista sta attuando con tutti: con l’Europa, con i mercati, con gli alleati di governo e con quelli del centrodestra. Ma perché funzioni è necessario presidiare la casamatta del Viminale e delle altre postazioni governative occupate dalla pattuglia leghista. Perciò, scordatevi una crisi dell’Esecutivo a breve. Pur di tenere la posizione Salvini è disposto a mandare giù molti più rospi di quelli messi nel conto all’inizio dell’avventura governativa. Decreto Dignità docet.

Sull'altro fronte di maggioranza se Luigi Di Maio, incalzato dalla corrente interna di sinistra al suo Movimento, si trovasse costretto a virare verso provvedimenti in spiccata sintonia con il sentire progressista, lo farà senza battere ciglio. Per questa ragione siamo preoccupati che il Pd sbrachi. Purtroppo, i suoi odierni capi sembra che non desiderino di meglio che farsi liquidare dalla Storia. Ma come si fa a non capire che non sono più in sintonia con il Paese? Come si fa a pensare che possano ancora funzionare cene e caminetti tra maggiorenti non per appianare stupidi contrasti personali ma per risolvere una crisi da vuoto di idee e di proposte nella quale è precipitata la sinistra. I “dem” hanno compiuto errori colossali i più gravi dei quali sono stati: l’autoreferenzialità nell’individuazione delle linee strategiche da perseguire e l’insopportabile arroganza nella gestione del potere, sia centrale, sia periferico e territoriale. Ma il più grave di tutti ha riguardato l’incapacità di cogliere gli aspetti distruttivi per le fasce meno abbienti della popolazione indotti dalla globalizzazione accelerata e selvaggia dell’economia. Aver accettato fideisticamente l’idea che, nel “nuovo mondo”, la condizione di mobilità delle persone potesse essere parificata a quella delle merci e dei capitali è stato un autogoal pazzesco. Come lo è stato quello di non intuire i pericoli che si nascondevano dietro l’avvento del tanto osannato turbocapitalismo. Il Pd, nell’arco di un decennio, ha perso il suo blocco sociale di riferimento senza, peraltro, riuscire a procurarsene un altro che non fosse l’interessata accondiscendenza di alcuni cosiddetti “Poteri forti”. I “dem” hanno dimenticato l’europeismo delle origini per associarsi, nell’immaginario collettivo, alla versione, malata, di Unione continentale asservita alle aspirazioni neoimperialistiche dell’asse carolingio franco-tedesco. La sconfitta elettorale dei progressisti non è stato un fulmine al ciel sereno ma un processo sedimentato nel tempo.

Ora, ciò che resta da stabilire è se esso sia o no reversibile. Da acerrimi nemici gli auguriamo di sì. Perché l’alternativa del rigonfiamento elettorale grillino ci spaventa molto più di un Pd ancora vivo e in grado di combattere. Magari non soltanto prendendosela con “La prova del cuoco”. Almeno si spera.

Aggiornato il 18 settembre 2018 alle ore 10:57