La sciarada libica e quel tricolore dato alle fiamme

Il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi è andato a Tripoli per concordare con le autorità locali la ripresa dell’accordo stipulato nel 2009 dal Governo Berlusconi con quello libico di Gheddafi. Il patto, tra le altre misure, prevedeva importanti investimenti italiani sul suolo libico per fronteggiare il flusso in transito dei migranti clandestini. Di tutto ciò la stampa nostrana, nostalgica dei governi del centrosinistra, ha detto poco. “Giornaloni” e media hanno glissato sull’iniziativa che implicitamente riconosce la validità dell’operato, a suo tempo, del Governo Berlusconi. In compenso, ci hanno pensato il generale Khalifa Haftar e i suoi sodali a non farla passare sotto silenzio. Ciò che ha particolarmente preoccupato l’uomo forte della Cirenaica e le bande delle tribù a lui legate che agiscono nella regione del Fezzan nel sud del Paese nordafricano, è stata la notizia che Roma intende rivitalizzare il progetto di costruzione di una base operativa protetta da militari italiani nella città-oasi di Gath, nel sud-ovest a confine con l’Algeria.

L’obiettivo resta il controllo della frontiera meridionale per impedire che il flusso di immigrati dal Sahel giunga sulle coste settentrionali. Ma al “generale” Haftar la presenza del tricolore provoca l’orticaria. Da qui il rinfocolarsi dell’odio anti-italiano a Bengasi spinto oltre il lecito. Passi per la riproposizione in televisione dei vecchi filmati risalenti al tempo della colonizzazione italiana, ma le scene della nostra bandiera bruciata in strada dai manifestanti e le minacce di Jihad contro il nostro Paese non sono il miglior viatico per un dialogo sereno. Il ministro delle Difesa Elisabetta Trenta ha fatto sapere che nei prossimi giorni sarà in Libia e proverà ad incontrare anche Haftar. È giusto che ci provi, lo impone la regola della diplomazia. Attenzione, però. Il neo-ministro deve essere ben consapevole che Haftar non è un leader vero ma soltanto un fantoccio mosso da fili manovrati da lontano.

Per la precisione, dall’interno del palazzo parigino dell’Eliseo i cui ultimi inquilini hanno scelto di ingaggiare una guerra sotterranea agli interessi del nostro Paese sul suolo libico. Ciò che spaventa il capo-banda di Bengasi non sono i pochi militari che Roma metterebbe a disposizione di Tripoli per contrastare al meglio il fenomeno dell’immigrazione sul confine meridionale. Il problema è la ritrovata volontà del nostro Governo, negata negli anni del centrosinistra, di riprendersi la leadership nel processo di stabilizzazione del Paese nordafricano. Ai francesi la cosa non va giù e allora agitano il fantoccio Haftar per intimorirci. C’è sul tappeto la partita del petrolio che la Francia non vuole in alcun modo lasciare giocare alla nostra Eni. E non solo. In ballo c’è la ricostruzione del Paese sulla quale hanno messo gli occhi le imprese transalpine. Se fosse per l’Eliseo all’Italia, nei nuovi assetti, verrebbe consentito di ricostruire qualche cabina balneare con annesso pedalò. E nulla più.

Siamo chiari, l’invasato che ha dato fuoco alla nostra bandiera è sicuramente libico ma la mano che gli ha fornito l’accendino per appiccare il fuoco è quella dei Servizi segreti francesi che, da ben prima della cacciata di Gheddafi, in Cirenaica continuano ad agire indisturbati. Il neo-ministro tenga ben presente la realtà se e quando incontrerà il fantoccio Haftar. Non sia troppo accondiscendente. Lui da tempo va ripetendo che non tollererà ”presenze militari straniere” nel Paese, con chiaro riferimento ai nostri militari. Non guasterà comunicargli che un eventuale atto ostile contro uomini e mezzi della nostra Difesa gli costerebbe parecchio. Tanto per gradire non sarebbe male che il neo-ministro sollecitasse il comando, italiano, dell’operazione Sophia di EuNavFor Med d’intensificare le azioni di contrasto in mare al contrabbando di prodotti petroliferi dai porti libici, conformemente alle risoluzioni 2146 (2014) e 2362 (2017) del Consiglio di sicurezza dell'ONU, fomentato dalla Cirenaica di Haftar e di inasprire l’embargo alle armi “in accordo alla Risoluzione dalle Nazioni Unite nr. 2292 (2016), poi rinnovata con la Risoluzione 2357 (2017)”.

Una vigorosa stretta alla tasca e alla potenza di fuoco del “generale” gli farà abbassare la cresta, Parigi o non Parigi dalla sua. C’è poi in corso la richiesta del nostro ministro della Difesa al Governo di Washington di assicurare un sostegno concreto all’azione italiana in Libia. Donald Trump ci vuole alleati speciali, soprattutto all’interno della Nato dove intende inchiodare gli altri partner alle loro responsabilità nel funzionamento e nel finanziamento dell’Alleanza. Benissimo! Ma l’attenzione particolare all’Italia la dimostri in concreto nel capitolo libico. Bisogna riconoscere che il ministro Moavero Milanesi ha fatto un discreto lavoro con Tripoli, ma non basta. Se vuole completare l’opera deve riprendere l’aereo e volare dritto al Cairo.

Non si sega l’alberello sul quale è appollaiato il bandito di Bengasi se non si tratta anche con il presidente egiziano al-Sisi, che anche se tiepidamente sostiene Haftar. È necessario ripristinare buoni rapporti con l’Egitto, mettendo dolorosamente da parte l’affare dell’omicidio di Giulio Regeni, se si vuole stringere il cappio intorno al collo di Haftar senza che il Cairo insorga o che da Parigi giunga qualcuno a toglierlo. L’odierna fase degli equilibri geo-strategici nel quadrante del Mediterraneo è contrassegnata dalle prove muscolari. O il Governo italiano ne prende atto e si adegua o continueremo, come Paese, a buscarle da tutte le parti. E che a menarci sia principalmente Emmanuel Macron ci risulta francamente indigesto. Ergo, Palazzo Chigi si dia una scossa.

Aggiornato il 10 luglio 2018 alle ore 18:09