Politica, talk-show, risultati

Non siamo stati né profeti né indovini e in questo momento non ci interessano più di tanto le disquisizioni a proposito di governi “in fieri” e di ministri più o meno in pista. La verità è che siamo di fronte a un capovolgimento non tanto o soltanto delle impostazioni per dir così istituzional-politiche come del resto ha puntualizzato più volte questo giornale col suo direttore, ma, semmai, il capovolgimento è la volontà degli elettori che si sono espressi più di due mesi fa.

Due e mesi e passa dopo, e dopo una trattativa a dir poco sbilenca, pardon sbilanciata dei due giovani leader, qualcuno (“Il Foglio”) fa notare che ci troviamo di fronte a una Costituzione violata col silenzio del Quirinale con sullo sfondo “la nomina dal capo del governo e i deliranti negoziati basso-partitocratici in corso”, e che non ci parlino di Repubblica bene ordinata ma, al contrario, di una pagliacciata.

Insomma, qualcosa che nella sua rappresentazione è parente stretta dell’immortale Commedia all’Italiana (La Repubblica) e se ne attende la conclusione che, almeno nei film di Risi e Comencini, finiva bene. Per ora ridiamoci sopra, pur domandandoci come e qualmente sia possibile una trattativa che non incominci dall’inizio, ovverosia con una scelta del capo del governo che, come si sa, è colui che dà il cosiddetto “go” ai suoi ministri garantendone la linea programmatica tanto più se conforme al leggendario “Contratto” sbandierato dal mediaticamente onnipresente Luigi Di Maio, che non vuole assolutamente parlare di accordo, relegando il termine nel vocabolario delle parolacce della vecchia politica. A meno che...

Mediaticamente sovraesposto, il leader pentastellato, si diceva. Ma non è soltanto colpa sua dal momento che mai come in questi ultimi periodi - compreso quello a Milano nel suo simbolo storico, ovvero il Palazzo Pirelli ora sede del Consiglio regionale lombardo - il lavoro o lavorio dei mass media è stato a dir poco incessante sul suo volto e le sue dichiarazioni peraltro stringatamente buttate lì come slogan. Dire che questa campagna elettorale è stata una “svolta mediatica” è eccessivo se si pensa al capostipite di Arcore il quale, tuttavia, sapeva e sa benissimo quanto la sovraesposizione diventi, prima o poi, un freno e che tocca sempre al protagonista se agire sui freni o sull’acceleratore.

Nel caso dimaiano ci troviamo quasi sempre di fronte a un assalto delle televisioni, a un sistematico approccio, rarissimamente respinto dal protagonista dando l’impressione di un’ebrezza reciproca che, come tutte le ubriacature del genere, rischia di capovolgersi in una sorta di eccesso suggerendone un continuum senza freni, con un’accelerazione di scene, sequenze e primi piani e un risultato non lontano dall’effetto del déjà-vu.

Intendiamoci, la faccenda viene da lontano e va pur detto che il ruolo del talk-show è stato non soltanto propedeutico a quanto viviamo e vediamo oggi, ma è stato decisivo o quasi nel risultato. Non molte le differenze fra le private (la Rai ha procedure diverse, come si sa) con una spiccata simpatia di La7 per i grillini, ma anche i talk di Mediaset non hanno scherzato, quanto a simpatie, sia pure con una propensione per la Lega, che era ed è bensì l’alleata di Forza Italia, ma il suo, di Matteo Salvini, protagonismo nei talk berlusconiani è stato comunque esaltato.

Non si vuole fare un discorso per dir così di parte. Semmai una riflessione. Su un prima e su un dopo. Che è già cominciato. Per fortuna col ritorno “politico” di Silvio Berlusconi.

Aggiornato il 15 maggio 2018 alle ore 13:55