Fico prova la svolta a sinistra

Il presidente della Repubblica, ha conferito un secondo mandato esplorativo per la formazione del governo a Roberto Fico, presidente della Camera dei Deputati. Nessuna sorpresa: Sergio Mattarella segue lo schema che si è dato per uscire dall’impasse.

Si tratta di una sorta di roadmap che, alla fine, prevede la costituzione di un esecutivo “terzo” rispetto alle forze politiche in campo che assuma l’onere di guidare il Paese facendo solo poche cose necessarie in vista di un ritorno al voto, da fissare entro un arco temporale non superiore ai dodici mesi. A meno che le quarantotto ore concesse a Fico per trovare il bandolo della matassa nell’intesa dei Cinque Stelle con il Partito Democratico portino ad un successo. Che il tentativo del presidente della Camera riesca è poco più di un’ipotesi di scuola: un ragionamento per assurdo posto per confermare la tesi dell’impossibilità a costruire alleanze di governo stabili tra almeno due dei poli dell’odierno quadro politico. Numeri alla mano, fallito l’accordo centrodestra-Cinque Stelle, il presidente della Repubblica Mattarella doveva verificare la praticabilità di un’alleanza alternativa sul lato sinistro del campo. Per onestà intellettuale, se il capo dello Stato volesse fare le cose perbene esaminando tutte le opzioni consentite dallo scenario parlamentare, prima di procedere con un’iniziativa propria, dovrebbe sondare anche l’incontro ravvicinato del terzo tipo tra centrodestra e Partito Democratico. Sarebbe l’ennesimo buco nell’acqua ma la correttezza metodologica del Quirinale ne uscirebbe cristallina. Ma perché si presume che il tentativo di Fico sia già abortito?

C’è una questione tempo che pesa come un macigno su questa seconda esplorazione. Sono troppo poche quarantotto ore per far cadere tutti i veti che il Partito Democratico, sotto la pressione occulta del “dominus” Matteo Renzi, ha opposto ai grillini, nemici giurati di sempre. Qualcuno ha detto che le idee camminano sulle gambe degli uomini. Vuol significare che anche le migliori intuizioni possono crollare miseramente se non c’è la volontà delle singole persone di sostenerle nel modo adeguato. Dopo anni trascorsi a scambiarsi gli insulti più volgari e le accuse più infamanti come si può pensare che oggi, i medesimi protagonisti delle guerre di ieri, diventino gioiosi sodali di una stagione di riforme e di cambiamenti per la quale condividono poco o nulla delle cose da farsi? È vero, tuttavia, che potrebbe prevalere il riflesso condizionato dei dirigenti del Pd a restare avvinghiati al potere in qualsiasi forma possibile, soprattutto se la controparte li sappia solleticare con offerte particolarmente allettanti, quali ad esempio l’impegno a lasciare inalterata la presa piddina sulla Rai e su alcune aziende pubbliche, in cambio dell’appoggio, anche esterno, a un governo a guida Di Maio.

Ma a tutto c’è un limite, anche alla tentazione di prendere l’uovo oggi con la certezza che non vi sarà più alcuna gallina domani. Perché, fuori di metafora, il rischio concreto con il quale il Pd deve misurarsi nel caso accettasse di fare da spalla ad un esecutivo pentastellato è quello di sparire dai radar del consenso degli italiani. Un Pd che cede il proprio campo all’avanzata grillina finirebbe per non avere più ragione d’essere. D’altro canto, i Cinque Stelle hanno un problema non da poco: una volta al governo devono mettere all’incasso le molte promesse fatte all’elettorato. Ciò significa smantellare buona parte del percorso di riforme compiuto dal Partito Democratico durante la scorsa legislatura. I “dem”, coinvolti nella maggioranza, a quel punto sarebbero costretti a rinnegare se stessi votando provvedimenti che vadano nella direzione opposta a quella imboccata da loro in passato. Per l’opposizione di Centrodestra sarebbe la cuccagna potendo cogliere due piccioni, il Pd e i Cinque Stelle, con la stessa fava della contestazione ad oltranza dell’azione di un governo sbilenco tenuto insieme dalla sola poco commendevole aspirazione a gestire il potere. Ora, benché tutto possa accadere sotto il fragile cielo di carta della politica italiana, resta estremamente improbabile che al richiamo delle afone sirene grilline, manzonianamente, “la sventurata (truppa del Pd) rispose”.

Due giorni passano in fretta. Archiviato anche Fico, comincerà la partita vera con il Quirinale che calerà sul tavolo le sue carte. Occorre, però, che il Presidente Mattarella presenti una soluzione che abbia il sostegno dei numeri parlamentari, altrimenti tutto va a monte e si torna a una nuova giocata. Ma in democrazia, com’è noto, le carte si rimescolano con le elezioni. E non con i governi tecnici.

Aggiornato il 24 aprile 2018 alle ore 14:17