Platone e il bullismo

Platone l’aveva già scritto l’editoriale sugli ultimi accadimenti scolastici e le cause più generali che li determinano. Sicché, per non sembrare presuntuoso e plagiario, ho pensato di riprodurlo parola per parola (*). Eccolo. Niente di nuovo sotto il sole.

«A mio parere, quando una città democratica, assetata di libertà, viene ad essere retta da cattivi coppieri, si ubriaca di libertà pura oltre il dovuto e perseguita i suoi governanti, a meno che non siano del tutto remissivi e non concedano molta libertà, accusandoli di essere scellerati e oligarchici».

«Sì», disse, «fanno questo».

«E ricopre d’insulti», continuai, «coloro che si mostrano obbedienti alle autorità, trattandoli come uomini di nessun valore, contenti di essere schiavi, mentre elogia e onora in privato e in pubblico i governanti che sono simili ai sudditi e i sudditi che sono simili ai governanti. In una tale città non è inevitabile che la libertà tocchi il suo culmine?».

«Come no?»

«Inoltre, mio caro», aggiunsi, «l’anarchia penetra anche nelle case private e alla fine sorge persino tra gli animali».

«In che senso possiamo dire una cosa simile?», domandò.

«Nel senso», risposi, «che ad esempio un padre si abitua a diventare simile al figlio e a temere i propri figli, il figlio diventa simile al padre e pur di essere libero non ha né rispetto né timore dei genitori; un meteco si eguaglia a un cittadino e un cittadino a un meteco, e lo stesso vale per uno straniero».

«In effetti accade questo», disse.

«E accadono altri piccoli inconvenienti dello stesso tipo: in una tale situazione un maestro ha paura degli allievi e li lusinga, gli allievi dal canto loro fanno poco conto sia dei maestri sia dei pedagoghi; insomma, i giovani si mettono alla pari dei più anziani e li contestano a parole e a fatti, mentre i vecchi, abbassandosi al livello dei giovani, si riempiono di facezie e smancerie, imitando i giovani per non sembrare spiacevoli e dispotici».

«Precisamente», disse.

«In una città come questa», seguitai, «caro amico, il limite estremo della libertà a cui può giungere il volgo viene toccato quando gli uomini e le donne comprati non sono meno liberi dei loro compratori. E per poco ci dimenticavamo di dire quanto sono grandi la parità giuridica e la libertà degli uomini nei confronti delle donne e delle donne nei confronti degli uomini!».

«Dunque», fece lui, «con Eschilo “diremo quel ch’ora ci venne al labbro”?».

«È appunto ciò che sto dicendo», risposi, «nessuno, a meno di non constatarlo di persona, potrebbe convincersi di quanto la condizione degli animali domestici sia più libera qui che altrove. Le cagne, secondo il proverbio, diventano esattamente come le loro padrone, i cavalli e gli asini, abituati a procedere con grande libertà e fierezza, urtano per la strada chiunque incontrino, se non si scansa, e parimenti ogni altra cosa si riempie di libertà».

«Stai raccontando il mio sogno», disse, «perché anche a me, quando vado in campagna, spesso capita proprio questo».

«Ma non capisci», domandai, «che la somma di tutti questi elementi messi insieme rammollisce l’anima dei cittadini a tal punto che, se si prospetta loro un minimo di sudditanza, si indignano e non lo sopportano? Tu sai che finiscono per non curarsi neppure delle leggi, scritte e non scritte, affinché tra loro non ci sia assolutamente alcun padrone».

«E come se lo so!», rispose.

«Dunque, amico mio», dissi, «questo mi sembra l’inizio bello e vigoroso da cui nasce la tirannide».

«Davvero vigoroso!», esclamò. «Ma che cosa succede dopo?».

«Lo stesso malanno», continuai, «che si manifesta nell’oligarchia portandola alla rovina, nasce anche nella democrazia, più forte e violento a causa della licenza, e la asservisce. In effetti l’eccesso produce di solito un grande mutamento in senso contrario, nelle stagioni, nelle piante, negli animali e non ultimo anche nelle forme di governo».

«È naturale», disse.

(*) Platone, “La Repubblica” (Libro VIII)

Aggiornato il 24 aprile 2018 alle ore 11:50