Quel filo di speranza

È vero, verissimo: la fiducia nella politica (da Libero) è meno del 10 per cento con sullo sfondo la scomparsa dei partiti e, in primo piano, la vittoria degli antisistema come Beppe Grillo e la conseguenza logica, pardon politica, è l’assenza di un qualsiasi dibattito sul futuro (ma anche sul presente) degli italiani.

Il fatto è che le cose vanno avanti, tant’è vero che il Quirinale ha affidato un incarico esplorativo alla presidente Elisabetta Casellati che, almeno lei, ha le idee chiare. Tant’è vero che l’autorevole esploratrice, come osserva il direttore, ricopre un ruolo fondamentale nella misura con la quale è in grado di svelare all’inclita e al volgo la più vera e percepibile realtà politica nel rapporto a due Salvini-Di Maio.

Il punto in fondo era ed è anche e soprattutto questo, giacché l’avventura di amorosi sensi politici della strana coppia avrebbe condotto il valzer della crisi in una sorta di ballata unimusicale data la confraternita antisistemica di entrambi. Con una variante decisiva introdotta da un Cavaliere ritornato in smagliante forma che non solo o non tanto contava sulla punta delle dita le frasi salviniana, ma affidava in diretta con uno specialissimo talk-show un breve quanto essenziale messaggio antipentastellati non democratici che, di fatto, ha stoppato e modificato radicalmente la processione parapolitica dei convocati quirinalizi. A cominciare da quel Di Maio col suo io, io, io e gli altri che sembra oggi la riedizione di un vecchio film a causa della mancanza di idee.

Ora, se è vero da un lato che anche questa non novità pentastellata è l’indicazione che nessun nuovo che avanza è davvero nuovo se non ha un progetto, un programma, una proposta, dall’altro rivela come e qualmente la fiducia drammaticamente scemante nella politica può o potrebbe essere rallentata se non fermata dalla constatazione, grandemente risaltante alla luce delle convocazioni, e specialmente dei limiti vistosi di almeno uno dei concorrenti al ruolo di Presidente del Consiglio, da costui né esplorato né tantomeno preincaricato ma semmai aggiudicato, si direbbe per grazia divina.

Giacché è questo l’obiettivo di Luigi Di Maio che, per l’occasione, si è avvicinato sia a quel Donald Trump contro cui sempre s’erano levate le urla grilline, sia all’Euro. Europa e seguenti, ipercriticati ad ogni spron battuto dai “Dibba”, dai Fico se non da quel casaleggismo che vede e provvede, anche a seconda dei programmi mutevoli, cioè del prima e del dopo.

Ma quel suo alfieriano volli, sempre volli fortissimamente riferito sempre a se stesso ha di fatto posto in essere una condizione che in politica non si può avverare poiché l’assenza di qualsiasi subordinata alla propria volontà “pone enormi sacrifici agli altri partiti e vincola troppo a se stesso il partito”. Cosicché sembra tornare la politica con le sue regole, tanto più cogenti quanto più il traguardo non è nient’altro che Palazzo Chigi. Infatti, la non strana coppia Di Maio-Salvini non soltanto ha strappato, come si dice sportivamente, ma pure politicamente non sembra così in sintonia se è vero come è vero che Salvini pur velocissimo nella corsa per la premiership, ha frenato opportunamente in vista della curva pericolosa sul Colle più alto, annunciando che, per quanto riguarda lui (17% dei voti) e la coalizione di centrodestra (Berlusconi), più forte e più legittima dei pentastellati, va bene anche un terzo nome. E il gioco è fatto.

Intendiamoci, siamo soltanto nel primo tempo di una partita che si annuncia dai tempi lunghi, sol che si pensi alla Germania dei sei mesi circa d’attesa per la Cancelliera Angela Merkel, ma anche riflettendo sulla nostrana situazione nella quale, tanto per dirne una, il silenzio del Partito Democratico si sta sciogliendo in una loquacità anche programmatica condita da non segreti ammiccamenti al Movimento 5 Stelle e da ambizioni partecipative in vista del grande slam che prima o poi arriverà. E, insieme, un po’ di fiducia nella maltrattata politica. Almeno, un filo di speranza.

Aggiornato il 19 aprile 2018 alle ore 12:41