La cartina di tornasole

La divisione in politica estera (la grande politica che determina la politica interna) tra filorussi e filoccidentali “prima o poi obbligherà le forze sparse dei difensori della società aperta, sconfitte in questa campagna elettorale, ad aggregarsi per contrattaccare”.

Questo l’auspicio e l’esortazione e l’appello di Angelo Panebianco. Come non essere d’accordo, se si è liberali, di qualsiasi sfumatura? Nella campagna elettorale, la politica estera è stata sostanzialmente assente, eccettuate certe visitine ad ambasciate ed uffici per darsi la patina giusta ad attrarre voti e respingere sospetti. Ma la verità è che la maggioranza degl’Italiani sta lasciando gli ormeggi del porto della sicurezza, dove per settant’anni ha prosperato pure a poco prezzo. Il distacco non è causato soltanto da quegli assertori della pace all’italiana, appunto, sempre pronti a marciare sotto la bandierina immacolata con la scritta “Io sono il bene”; e neppure solo dagli equivoci profondi ingenerati dall’articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra, in base al quale occorrono discussioni più che bizantine ed ipocrite per considerare lecito l’impiego delle Forze armate; e neanche solamente dall’irenismo religioso del cattolicesimo, dimentico della sua storia e degli insegnamenti dei Padri della Chiesa sulle guerre giuste e ingiuste; e nemmeno esclusivamente da quell’antifrastico pacifismo al servizio del comunismo, sovietico e no, che ha imperversato durante la Guerra fredda.

Alla base di questa particolare specie di avventurismo in politica estera penso di poter scorgere principalmente due caratteri specifici del nostro popolo: l’ambiguità e la condiscendenza.

La prima consiste nell’attitudine degl’Italiani a comportarsi in modo da poter essere variamente interpretati, la quale sfocia a preferenza in una perplessa irresolutezza, fatta di attendismo e doppiezza nella scelta del miglior partito da prendere, considerando il tornaconto apparente e momentaneo anziché gl’interessi reali e duraturi: scelta, questa, che in politica estera richiede il possesso di tali qualità politiche da essere raro appannaggio di uomini lungimiranti che guidano anziché lasciarsi guidare. Mi vengono in mente Churchill, Cavour, De Gasperi, giganti a petto di vincitori e vinti protagonisti della campagna elettorale.

La seconda sta nell’inclinazione a compiacere adattandosi e ad adattarsi compiacendo, nella ricerca di una posizione che, senza del tutto pretendere e concedere, mantenga un certo equilibrio tra gli uni e gli altri, che però evoca il pendolo anziché la bilancia. Un esempio clamoroso di tali caratteri nazionali lo avemmo allorché, essendo lo Stato ebraico attaccato lungo tutti i suoi confini a rischio della distruzione totale, un celebre nostro governante disse che l’Italia era preoccupata della pace in Medio Oriente “e quindi anche della salvezza d’Israele”.

La politica estera, le alleanze, gli amici e i nemici, sia quelli che scegliamo sia quelli che subiamo, sono la cartina di tornasole di ciò che siamo e vogliamo essere come società. Per dirlo in maniera icastica, in modo che tutti capiscano senza ambiguità e condiscendenza, dobbiamo metterla così: noi non siamo liberali perché filoccidentali, ma siamo filoccidentali perché liberali. Angelo Panebianco ingiunge ai liberali italiani: “Aggregatevi e contrattaccate!”. È un’ingiunzione a cui bisognerebbe obbedire. Sì, ma come? Egli spera che “dalle forze sparse dei difensori della società aperta” possa alzarsi un leader che le riunisca, le rappresenti, le potenzi. Tuttavia un capo del genere, che primeggi per intrinseca autorevolezza, un princeps, difficilmente, ammesso che nascesse o che sia già nato, potrebbe emergere in una democrazia che le forze illiberali preponderanti, l’ordinamento giuridico risultante, le leggi elettorali conformi hanno trasformato in una oligarchia temperata dal voto. Quindi la domanda: “Può una società politicamente chiusa, quasi arroccata a difendere il sodalizio, lasciare che i liberali si riuniscano, si rafforzino e contrattacchino per instaurare effettivamente una società aperta?”.

Nel corso della storia la libertà dei liberali ha prevalso eccezionalmente, spesso incompiutamente, talvolta in modo durevole. L’Unione europea, che l’Italia contribuì a fondare, tra i suoi difetti annovera l’aver ingenerato negli Europei la falsa convinzione di conservarsi liberi e indipendenti senza pagarne il prezzo. Dimenticano che la più profonda definizione della pace, la più bella di tutti i tempi, coessenziale alla tradizione occidentale della società aperta, è dovuta a Cicerone: “Pax est tranquilla libertas”. Propongo al leader invocato del venturo partito della libertà di farne il motto.

Aggiornato il 18 aprile 2018 alle ore 13:19