M5S: che cosa s’intende per popolo

Luigi Di Maio ha posto il veto a Silvio Berlusconi e Matteo Renzi e l’ha fatto da una tivù importante attenta e non nemica come La7 ed è inutile chiedersi se ne avesse avuto un mandato dopo una riunione di qualche organismo pentastellato. Anche perché, a ben vedere, quello che lui ha definito come il lancio di un contratto altro non è che una intromissione non tanto o soltanto nei due partiti interessati, Forza Italia e Partito Democratico, quanto e soprattutto nella volontà popolare espressa un mese fa. Di certo la “cosa” deve essere un più complessa in questi giorni, per non dire mesi, di trattative governative.

Il fatto che più incuriosisce in questi tempi di dipendenza dalle immagini, cioè dalla tivù, è  una sorta di acquiescenza critica di non pochi mass media nei confronti di certi aspetti del Movimento 5 Stelle. Lo diciamo tanto più in questi giorni quanto più l’auto-incaricato Di Maio corre di qua e di là, e ovviamente al Quirinale dove avrebbe voluto fare a meno di recarsi perché, come va ripetendo insieme ai suoi, l’incarico vero, quello che conta, glielo ha dato il popolo italiano il 4 marzo scorso. Il popolo, appunto.

L’aspetto, eccone uno, più singolare è dunque la pigrizia di molta informazione, compresa quella pubblica della Rai, a segnalare a noi ma anche a Di Maio che prendere il 32 per cento dei voti è cosa ben diversa dal prendere il 51 per cento, ovvero la maggioranza assoluta che è davvero voluta dal popolo, donde la sua investitura a Presidente del Consiglio dei ministri.

Nulla quaestio, verrebbe voglia di commentare se non fosse che a questo aspetto niente affatto marginale, se ne aggiungono altri che caratterizzano la fisionomia politica dei pentastellati, dall’Euro all’Europa, dall’economia alla giustizia, e che fanno del partito di Beppe Grillo una novità, per molti positiva per altri negativa, nel panorama storico del nostro Paese. Caratteristica essenziale, del resto, di un movimento schiettamente di protesta, che si è dichiarato apertamente contro tutti gli altri, ha innalzato la bandiera dell’antagonismo puro e duro a base (fino a qualche mese fa) di urla, insulti, ingiurie, offese e minacce condite in salsa moralista con forti spruzzate di giustizialismo, donde la bandiera sventola con la scritta di onestà.

Un movimento così ha come struttura distintiva il populismo che si distingue da un altro populismo come quello che Matteo Salvini desume dalla radice localista, cioè nordista, della Lega che fu di Umberto Bossi anche se il giovane leader leghista sembra attutire la voce del Nord per dare suoni più alti e articolati a un populismo nazionale e comunque temperato anche e soprattutto perché, non diversamente da Di Maio, anela a Palazzo Chigi, con una notazione non poco marginale e cioè che sarebbe disposto a farsi da parte in caso di necessità. Cosa che per Di Maio è addirittura inconcepibile perché, per l’appunto, il popolo vuole lui e solo lui. Una volta, tanto tempo fa, si esclamava, rivolti al cielo, un solenne e grato Deus Vult. Adesso è il popolus che ha per dir così sussunto il Deus.

Il punto interessante del populismo è la sua consapevole distrazione, chiamiamola così, nei confronti di ciò che si intende per governo del popolo in democrazia e che Abramo Lincoln aveva sancito lapidariamente come “Governo del, dal e per il popolo”, una frase, anzi, una dottrina che annuncia e difende i valori fondamentali e le garanzie effettive della liberal-democrazia.

In nome del popolo, dunque, si dicono e spesso si fanno tante cose, anche se uno sguardo dentro il M5S potrebbe essere utile a comprendere come quel nome fatale e il suo ruolo siano non troppo frequentati, a cominciare dallo statuto che prevede una gestione squisitamente verticistica del capo e tende esplicitamente a escludere decisioni collegiali tanto più che nella sua opera politica, almeno fino a qualche giorno fa prima dell’auto-incarico di Luigi Di Maio, si proclamavano polemiche agli istituti parlamentari, rifiuti all’articolo 67 della Costituzione che garantisce libertà a qualsiasi parlamentare pentastellato, che invece oggi viene multato con 100mila euro in caso contrario, un volere la sostituzione della democrazia normale con quella del Web, l’esistenza di strutture per dir così autoritarie all’interno del movimento dove uno come Davide Casaleggio (peraltro mai eletto dal popolo) sembra avere anche tramite quel blog pomposamente chiamato Rousseau un potere se non di vita e di morte, certamente di decisione inappellabile sui pentastellati, parlamentari o meno.

In questo quadro è piombato il veto, pardon il lancio del contratto di Luigi Di Maio, ovverosia la deberlusconizzazione di Forza Italia e la derenzizzazione del Partito Democratico. Nulla più e nulla meno. Ma forse si tratta di pretattica come il grande Helenio Herrera ci raccontava. Tattica o pretattica, diciamo. Ma resta comunque il segnale di un diritto di veto che piace tanto ai populisti. Per ora?

Aggiornato il 05 aprile 2018 alle ore 12:31