Il partito che non c’è

L’archiviazione del caso Romani – diverso anche se simile al caso Brunetta – sarebbe dunque cosa fatta, ovviamente nella logica politica del Cavaliere (mutevole di tanto in tanto), per cui l’archiviazione non è che un’inevitabile svolta. O tappo? O coperchio? In fondo, Romani non è che un nome, dicono. Ma davvero?

Non si tratta di insegnare, polemizzare o (peggio) di insinuare. E neppure di liquidare la questione con il classico “cosa fatta capo ha”, laddove la cosa-questione è diversa da un (anzi, “il”) fatto e si iscrive, all’interno di Forza Italia, cioè di Silvio Berlusconi, in una sorta di sintesi che a ben vedere ha poco a che fare con la politica tout court, cioè di un ensemble-partito-movimento e molto, invece, di una politica sottostante, più bassa se non terra terra, a livello di un interesse che definirlo come il “particulare” guicciardiniano sarebbe troppo onore. E neppure chiamarlo personale questo interesse, ma meglio definirlo occasionale, del momento, improvviso.

Intendiamoci, qui non si tratta di difendere nessun nome, sia pure collegato a un personaggio come Paolo Romani, che peraltro stimiamo da anni e che si è sempre distinto nei diversi ruoli che ha ricoperto per competenza e per correttezza. È uno di quei liberali che ha svolto dentro Forza Italia qualcosa che non era e non è un compitino di classe sotto dettatura e con l’occhio arcigno del maestro di Arcore col quale, peraltro, l’allievo è sempre stato in sintonia politica.

Il punto del problema riguarda così non tanto o non soltanto una persona ma anche e soprattutto il tema diciamo così sovrastante che il suo caso ha suscitato giacché, volenti o nolenti, si tratta di un caso politico nel suo significato meno amplificato e ingrandito. Il punto quindi riguarda gli aspetti propri di un movimento come Forza Italia (e non solo), che continua a dare l’impressione di un suo digiuno o assenza dalla politica degna di questo nome nella misura con la quale dentro la Polis le sue comunità come i partiti, per vivere, combattere, risorgere e crescere, necessitano di organizzazione, sia pure nei contenuti che li animano che nei modi con cui li esprimono. Altrimenti si ha a che fare con un partito solo di nome, un partito che non c’è.

Ma, si dirà, sullo sfondo del populismo mai silente, questa è la Seconda Repubblica, l’epoca dei leader cosiddetti indiscussi, dei capipopolo, dei protagonisti che si ergono sulla cosiddetta massa con il fascino e lo slancio di un Messia laico con la sua parola trascinante e suadente e con il suo messaggio onnicomprensivo.

Può essere, anzi è stato ed è così specialmente nel caso di un Silvio Berlusconi che, fra i tanti meriti davvero storici, ha quello di aver dato vita e forza a un movimento di massa, successivo e propositivo dopo i disastri politico-giudiziari degli anni Novanta culminati, appunto, nella fine di quelli di prima, cioè della Prima Repubblica. Che, per molti aspetti, è stata contraddistinta dal metodo della partitocrazia nella sua vulgata classica, ovverosia di una Repubblica nella cui azione e narrazione la sua politica si traduceva ed esprimeva non nella volontà popolare tout court ma dei partiti in sé. Donde la reazione successiva e la vulgata, appunto, antipartitocratica che ha dannato all’inferno i partiti.

Il fatto è che, volenti o nolenti, i partiti, sia pure nella versione berlusconiana, grillina, renziana e salviniana, non sono finiti all’inferno, ma sono su questa terra italica (ed europea) vivi e vegeti, si muovono, cambiano, perdono, vincono, si coalizzano, si combattono tra loro e poi governano dopo l’incarico affidato dal Quirinale sulla base dei risultati elettorali e della Carta costituzionale; Carta molto rispettata dall’attuale inquilino del Colle.

Ma per vivere e agire i partiti di oggi, di ieri e di sempre, hanno bisogno non soltanto della partecipazione ma delle modalità organizzative e comunicative, dei luoghi, delle strutture e, dunque, degli organismi con cui esprimere la propria personalità e funzione al meglio, al governo o all’opposizione. E non si tratta di partitocrazia e neppure di un ostacolo interno per condizionare una leadership ma, semmai, dell’opposto, cioè dell’aiuto e del sostegno al leader con a fianco un gruppo dirigente all’altezza dei compiti.

E non si tratta neppure di demonizzare le modalità della Prima Repubblica, le sezioni, le assemblee, i direttivi, i comitati centrali, le direzioni, le segreterie dove le decisioni, sia di base che di vertice, sono in funzione del successo del partito-movimento e del suo leader, ancorché con le inevitabili sfumature più che divisioni interne utili anche queste alla coralità di una voce politica.

Si capisce che rischi scissionistici ci sono sempre, ma sta di fatto che il numero degli oltre cinquecento parlamentari che hanno cambiato casacca in questa legislatura è un record imbattibile, impensato, impressionante, sconosciuto a quelli di prima. E se un partito, qualsiasi partito, ha bisogno di un gruppo dirigente, la sua qualità e crescita sta sia nelle volontà del capo sia nell’articolazione delle, sia pure minimali strutture interne funzionali alle battaglie politiche, anche con la missione di far crescere altri gruppi, altri dirigenti, altre capacità.

Ma occorreranno sempre e comunque i luoghi, le modalità, le organizzazioni interne altrimenti… E poi succede che, come nella vicenda Romani, resti solo un nome in un partito che non c’è. E invece è un caso, come tanti, ai quali hanno collaborato un po’ tutti, adagiandosi nell’illusione che, comunque, c’è un Lui che pensa a tutto. Invece avrebbero dovuto e dovrebbero pensarci loro, che pure sono un gruppo dirigente. O no?

Aggiornato il 30 marzo 2018 alle ore 12:51