Promesse come parole e voci?

Il duo dei velocipedi post-elezioni, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, procede mentre si delineano le cariche istituzionali sullo sfondo di propositi programmatici che dovremmo innanzitutto definire con la parola giusta: promesse. Vale un po’ la pena ricordare una massima di Marco Tullio Cicerone che, già ai suoi tempi, ne sentiva tante (di promesse) e ne vedeva assai pochi (di fatti). Promesse, diceva il grande oratore, sunt verba et voces. Appunto, parole e voci. L’esperienza e la storia aveva insegnato, già duemila e rotti anni fa, che quell’alta massima sempre cara al vocabolario ciceroniano mentiva, sotto una coltre aulica tanto più autorevole quanto più in lingua originale.

Infatti, “promissio boni viri est obligatio”, la promessa di un uomo onesto è un debito poteva bensì comparire nei testi di buone maniere ma non certo nelle case o piazze, anche e soprattutto perché tutti noi delle promesse non mantenute ne sappiamo qualcosa. Soprattutto di quelle politiche.

Intendiamoci, promesse e buoni propositi sono insiti nella politica giacché la sua narrazione non può non iniziare con quell’appello alla gente la cui forza d’urto e di convinzione si fonda sulla coniugazione del verbo promettere, con il tacito accordo che i fatti seguiranno. E dunque non c’è da stupirsi e tantomeno indignarsi se il sacco delle promesse è sempre pieno, sia pure nello spezzettamento mediatico con quel dire e non dire che è, appunto, il disvelamento di quella forma mentis che la Polis prevede e mantiene in una sorta di dare-avere quasi sempre teorico e simbolico.

Si vuole abolire la Legge Fornero, cancellare il Jobs Act e, ovviamente, il taglio delle tasse e l’introduzione del reddito di cittadinanza dove l’avverbio è obbligatorio come una corona di vittoria alla somma delle promesse, tante e grosse, che l’entusiasmo della duplice vittoria ha scatenato. Si tratta di un entusiasmo speciale sol che se ne vada a leggere la premessa, cara ai pentastellati, secondo cui “con queste elezioni è cambiato tutto. Per la prima volta avremo un Presidente del Consiglio eletto dal popolo”. Testuale. Laddove per popolo s’intende la funzione, la struttura e l’organizzazione del web facendo passare la Rete dal ruolo di strumento a quello di espressione tout court della volontà popolare.

Forse un minimo di prudenza sarebbe necessario, a meno che si voglia sostenere che esistano ben due popoli dove quello che conta indica la vera vittoria che sta, appunto, sul web. E l’altro, cioè noi? Secondo l’informata “Italia Oggi”, l’obiettivo grillino diventa la negazione della leggendaria centralità del Parlamento nel quale, del resto, il nuovo presidente è il numero due o tre del Movimento 5 Stelle, dove “tutti i candidati sono stati costretti a sottoscrivere un patto estorsivo in base al quale chi (eletto) non si attiene agli ordini dei capi e garanti (cioè Grillo, Casaleggio e Di Maio) deve pagare una penale di 100mila euro. Una scelta anticostituzionale perché incide sulla libertà di esercizio del mandato (articolo 67 della Costituzione) e perché consolida l’illegale usurpazione di poteri da parte di due persone non elette che, dall’esterno, possono influire in modo determinante sui componenti di quel Parlamento del quale Fico e Di Maio rivendicano la centralità”.

Come si dice: chi vivrà vedrà. E il Governo che verrà? Non sappiamo a che punto siano le trattative, fermo restando, allo stato, il nome di Luigi Di Maio come prossimo inquilino di Palazzo Chigi. Dei ministri, voci e illazioni varie. Come sempre, del resto. Ma il punto vero, quello sul quale le riflessioni nei media sono o dovrebbero essere più attente, riguarda i costi di quelle tre o quattro “cose” cioè leggi, da cancellare sostituendole con altre. Anch’esse “cose”, richiedenti spese ancorché anticipate con la garanzia di risparmi. Fra cui vitalizi da eliminare, diventati un vessillo da innalzare come simbolo di vittoria. Anche se qualcuno, dati alla mano, ha fatto osservare non solo che questa abolizione è stata già fatta col Governo Monti ma che i vitalizi, nella loro globalità, rappresentano meno dello 0,005 per cento dell’erogato dell’Inps. Staremo a vedere.

Riguardo alle promesse “forti” elencate, come le suddette abolizione di leggi e introduzioni di nuove, e citando sempre le osservazioni degli esperti, viene fatto rilevare che fra eliminazione della Legge Fornero, del Jobs Act, e chi più ne ha più ne metta, i costi dovrebbero arrivare se non superare i 50 miliardi di euro. Che non sono bruscolini, anche se da parte dei “cancellatori” si fa presente un’altra massima latina del “tot capita tot sententiae”. E fermiamoci qui, almeno col latino. Il resto di vedrà.

Aggiornato il 29 marzo 2018 alle ore 11:34