Il paradosso di una società di garantiti

A conti fatti, possiamo dire che le elezioni del 4 marzo abbiano evidenziato nell’elettorato, cosa unica in Europa, la schiacciante vittoria delle formazioni cosiddette populiste, se con questo termine vogliamo identificare chiunque sia portatore di visioni semplificate e di facili scorciatoie per problemi molto complessi.

Ora, a prescindere se la fusione fredda di queste forze, Lega e Movimento 5 Stelle, sarà in grado di formare un nuovo Governo, la loro inarrestabile avanzata porta in luce l’ennesimo paradosso di una società la quale, a mio modesto parere, sembra aver perso letteralmente la bussola del buon senso. Buon senso che, almeno una volta, faceva rima con prudenza.

In Italia, com’è noto, convivono due realtà economiche ben distinte e che, ovviamente, incidono da sempre nella gestione politica del consenso: da un lato vi è una ancor poderosa struttura produttiva, maggioritaria nella parte settentrionale del Paese, chiamata volgarmente a tirare la carretta, e dall’altro lato esiste invece una imponente massa di garantiti e di assistiti che, sotto le più disparate forme, vivono di spesa pubblica.

Una spesa pubblica la quale, occorre sempre precisare, è sempre più orientata a sostenere chi vive fuori dalle logiche della produzione di valore aggiunto; non a caso il nostro welfare, considerato quasi inesistente dai campioni dell’onestà a 5 Stelle, da solo rappresenta oltre il 57 per cento dell’intera, colossale spesa pubblica.

In sostanza, in un mare magnum di vitalizi di ogni genere, di posti di lavoro inventati e di sussidi tra i più fantasiosi, il povero Pantalone è obbligato, attraverso una fiscalità a dir poco proibitiva, a facilitare l’esistenza di milioni di individui che senza la presenza dello Stato sarebbero costretti a cercare la cicoria nei prati.

Ma la maggioranza di costoro, che alcuni decenni addietro rappresentavano il serbatoio elettorale del grande e rassicurante partito unico della spesa pubblica, oggi sembrano aver virato verso chi, almeno sulla carta, si propone senza mezzi termini di sfasciare i già precari conti pubblici minando gravemente la tenuta economica e finanziaria del sistema italiano. Probabilmente perché abbindolati dalla martellante propaganda dei vincitori, facilitati in questo da una informazione molto distratta sul piano dei numeri e della reale fattibilità delle promesse sbandierate, questi cittadini devono aver immaginato che spianando la strada a chi racconta la bella favola di un nuovo regno dell’oro, con meno tasse e più soldi da ridistribuire, la loro attuale condizione sarebbe ulteriormente migliorata.

In realtà, ed è qui che incontriamo il summenzionato paradosso, nel caso venisse alla luce il tanto sperato Esecutivo delle favole intenzionato concretamente a realizzare i suoi fantascientifici programmi, l’Italia rischierebbe di saltare in quattro e quattr’otto, innescando una catastrofica crisi di liquidità stile Grecia o Cipro, tanto per restare in Europa. A quel punto non solo si manifesterebbe la patente impossibilità di tramutare in oro il piombo delle tante balle spaziali elargite a piene mani prima del voto, ma soprattutto le attuali coperture finanziarie di chi vive protetto dall’ombrello pubblico, ossia garantiti e assistiti, sarebbero messe in forte discussione, come per l’appunto è già accaduto altrove.

D’altro canto, come mi sforzo di ripetere da qualche tempo, se l’unica strada per riportare un po’ di sano pragmatismo all’interno di una democrazia eufemisticamente abbastanza confusa è quella di consentire al popolo di sperimentare la fallacia dell’italico populismo, allora è auspicabile che lo si faccia al più presto possibile, mandando nella stanza dei bottoni i migliori rappresentati del populismo medesimo. Parafrasando un celebre spot sull’Aids di alcuni anni orsono: se il populismo lo conosci veramente, lo eviti come la peste.

Aggiornato il 28 marzo 2018 alle ore 11:17