Renzi

Quando apparve al mondo politico nazionale, fuoriuscendo dalla platonica caverna della Leopolda, suscitò simpatie dentro e fuori il Partito Democratico. Il suo piglio impertinente fino alla sfrontatezza, la sua sicurezza non ancora trasmodata in sicumera, quel suo scattare, ironizzare, assolvere e condannare schioccando le dita, il suo faccino tondo e pulito, ora ridente, ora crucciato, fecero di lui il beniamino degli assetati di novità e l’oggetto della curiosità degli impazienti. Prese di botto il quaranta per cento dei voti. S’illusero i votanti e s’illuse il votato. Ben presto l’illusione si voltò in disillusione.

Dopo la grande vittoria, la sconfitta fu rovinosa, sebbene la percentuale fosse la stessa. Doveva aspettarselo, avendo prescelto come proponente della riforma costituzionale un’avvocata esperta in diritto fallimentare. I pregi parvero via via difetti, fino a diventare la sua completa fisionomia vera e propria. Egli ricorda alla perfezione quell’aforisma di Voltaire secondo cui è un pregiudizio credere che le anguille guariscano dalla paralisi sol perché si agitano sempre. Ovvero, come altri ama dire, egli avanza come un insetto sulla carta moschicida. Certo è che più si muove più s’affossa. Appare un risolutore irrisolto. Pericoloso non solo per sé, pure per gli altri. In un triennio di governo ha saputo addossare sul groppone degl’Italiani centocinquanta miliardi di debito pubblico, in più. Ciò nonostante, si ripropone agli elettori, come un boccone indigesto. Egli è caratterialmente preso dalla tarantola della velocità, un difetto esiziale per ogni governante degno del nome. Come un futurista in sedicesimo, coltiva la fretta a prescindere dalla destinazione.

Un giorno Renzi andò da Scalfari come Alessandro Magno andava da Aristotele. L’Eugenio, “il ben nato”, fece dell’incontro un ritratto esilarante: storico, a suo modo.  A un certo punto del colloquio, Scalfari venne torturato da un angoscioso interrogativo, più che paterno, sulla sorte dello scolaretto Renzi: “Nel frattempo studierà e che cosa?”. La risposta gli venne tuttavia naturale: “La struttura territoriale e culturale del nostro Paese nelle sue varie espressioni”. Renzi, povero tapino, evidentemente sconosceva tale “struttura territoriale e culturale”, ad eccezione di due o tre paesini sull’Arno. Del resto, lo aveva ammesso a testa bassa allo Scalfari in precedenti incontri. Tant’è che ne ricevette saggi consigli sulle letture da intraprendere per acculturarsene: i tomi su Cavour, Giustino Fortunato, Salvemini, Antonio Labriola. Ma Renzi non era stato diligente al massimo, si lasciò scappare Scalfari: “Lui ne ha letti alcuni e li leggerà tutti ed altri ancora”. Su come e quando Renzi avrebbe potuto dedicarsi alle residue letture, Scalfari tacque, sebbene lo descrivesse “totalmente assorbito” dalla riforma del partito. Incurante di caricare sulle spalle dello svogliato allievo il peso di troppi libri, il precettore gli suggerì anche un po’ di De Sanctis, Machiavelli, Vico, per addottorarsi sui valori e gl’ideali politici. Con la dolcezza e la modestia che gli sono connaturate, Scalfari si schermì allorché Renzi, un ex presidente del Consiglio e segretario in carica del più grande partito italiano, lo tranquillizzò pigolando: “Quando ci parleremo di nuovo ti farò un resoconto dei libri letti come prova che non ti stavo prendendo in giro”. E, da quel civettuolo che è, sospirò compiaciuto: “Forse voleva accaparrarsi la mia simpatia e gliel’ho detto”.

La conclusione ricavabile dal siparietto domenicale su “La Repubblica” è più seria che faceta. Se Scalfari avesse detto la verità, Renzi per la vergogna avrebbe dovuto ritirarsi, magari a studiare, lasciando per sempre l’impegno politico. Se Scalfari avesse mentito, Renzi avrebbe dovuto querelarlo per diffamazione aggravata, concedendogli ampia facoltà di prova. Invece, nulla! Il futurista Renzi corre così veloce che il vento gli scompagina i libri da leggere. Ricorda pure un altro aforisma, stavolta mio, secondo cui chi ha letto dei libri non lo può nascondere.

Renzi, la prova definitiva di sé, l’ha data con le smargiassate, specialmente a ridosso del referendum. Per vincerlo, fece abbondante ricorso alle bugie costituzionali e agli insulti personali, giungendo a qualificare “accozzaglia” gli oppositori e dimenticando lo storico precedente del presidente George Bush, che mancò il secondo mandato perché, fu detto a ragione, aveva tradito la promessa pubblica e solenne di non aumentare il carico tributario. Il suo slogan elettorale, infatti, fu “Leggetemi le labbra: niente più tasse”. Non vi tenne fede, sicché nella campagna per la rielezione gli avversari ebbero buon gioco, efficacissimo, a rimandare in onda ossessivamente lo slogan, che gli si ritorse contro fino a procurargli la sconfitta, avendolo mostrato alla stregua di bugiardo inaffidabile. Renzi a sua volta, con apodittica sfrontatezza, in diretta televisiva osò molto di più: “Facendo credo un gesto di coraggio, ma anche di dignità, io ho detto che, se perdo il referendum costituzionale, non è soltanto che vado a casa, ma smetto di far politica”.

È accaduto il contrario. Renzi chiede i voti per entrare in Parlamento con l’ambizione di governare ancora, nella fondata certezza che, a differenza degli Americani, gl’Italiani dimenticano. Pertanto, nei fatti, agisce come se non fosse già stato bugiardo e inaffidabile, scambiando pure per dignità e coraggio il prometterli soltanto, anziché dimostrarli.

Aggiornato il 14 febbraio 2018 alle ore 08:01