Questa è casa mia e qua comando io, nessuno osservi i giornalisti

Sono passati anni da Canzonissima ’71, ma il famoso ritornello di Gigliola Cinquetti è ancora attuale.

Da giorni, è cosa nota, la stampa giudiziaria embedded ha acceso un conflitto con gli avvocati penalisti. A Modena e Reggio Emilia le rispettive camere penali hanno istituito un osservatorio sull’informazione giudiziaria, per monitorare come i processi, in particolare quelli più delicati, vengono raccontati al pubblico.

Apriti cielo! I giornalisti sono insorti, gli organi ufficiali hanno lamentato censura e intimidazione, si è arrivati perfino (su “la Repubblica” del 31 gennaio) ad identificare - refrain piuttosto antico, a dire il vero - gli avvocati con i malavitosi. Si è scoperto che esiste addirittura (sic!) un osservatorio nazionale, quello dell’Unione Camere Penali Italiane. Ce n’è quanto basta per gridare all’attentato alla libertà di stampa. Un primo motivo di sgomento, se ne è già parlato nei giorni passati, è questa singolare visione dei diritti fondamentali: la manifestazione del pensiero è libera, la stampa è libera, le notizie sono pubbliche e destinate al pubblico, ma l’analisi, l’osservazione appunto, di come vengono narrate no, libera non è.

Il solo esame di articoli di stampa o servizi televisivi - ontologicamente destinati a chiunque - su fatti pubblici (tali sono i processi) da parte di soggetti privati, mancanti, pertanto, del sia pur minimo potere coercitivo, suscita timore. “Male non fare, paura non avere”. Si potrebbe rassicurare la stampa con la frase vessillo del pensiero occhiuto, sventolando la quale si invocano e giustificano intercettazioni, perquisizioni, e fastidiucci simili.

Ma siamo strenui difensori dell’inviolabilità della sfera privata e non lo facciamo, anche se non sarebbe inappropriato. Soprattutto, veniamo al punto, non crediamo che i giornalisti abbiano paura dell’osservazione del loro prodotto. Non è questione di allarme per il rischio di intimidazione. Molti cronisti hanno una concezione proprietaria dell’informazione giudiziaria. Cosicché la mera analisi del loro operato - ripetesi: destinato al pubblico, su cose pubbliche - costituisce una violazione di domicilio, un atto di lesa maestà. Esageriamo? No. Lo dicono loro stessi. Un inciso, buttato lì, spontaneo - dunque indicativo - in una dichiarazione degli organi rappresentativi della categoria sulla vicenda, ne disvela il vero pensiero, l’idea assolutista che essi hanno di sé e della propria funzione.

“La voglia di insegnare in casa d’altri è un male dei nostri tempi dal quale non pare immune chi si occupa del processo Aemilia”. Così Federazione nazionale della Stampa italiana, Associazione Stampa Emilia-Romagna, Ordine nazionale dei Giornalisti e Ordine dei Giornalisti dell'Emilia Romagna, il 26 gennaio.

Chiaro, no? Il processo è casa - o cosa - loro. Res publica, dicevano i Romani; pare significasse qualcosa.

Aggiornato il 08 febbraio 2018 alle ore 08:15