Le verità sui conti pubblici

Claudio Romiti, nell’articolo pubblicato ieri da “L’Opinione”, ci ha ricordato lo studio analitico elaborato dall’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, diretto da Carlo Cottarelli, sulla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza per il 2018. Di ciò gli siamo grati perché quell’autorevole lavoro consente di confermare una verità che non può più essere taciuta: il debito pubblico italiano, nelle condizioni date, è destinato a crescere di “ben 55 miliardi in più di quanto sarebbe spiegato dall’andamento del deficit”. Cosa vuol dire? Semplicemente che debito e deficit procedono su strade diverse e non esiste meccanismo che possa regolarne unitariamente la progressione o l’eventuale regressione. Come spiega Cottarelli, le formule alchemiche della finanza pubblica consentono di creare spese che creano debito ma non incidono nel computo del disavanzo. Tuttavia, l’aspetto anomalo che viene evidenziato è che la previsione di maggior Debito per i prossimi anni non sia giustificata dall’autorità redigente il Bilancio dello Stato. In soldoni: cosa sono quei 55 miliardi stimati di aumento del Debito? Da dove vengono? Come si sono formati? Tutte domande che non hanno ricevuto risposte dai soggetti istituzionali legittimati a fornirle.

All’ex commissario alla Spending Review del Governo Letta bisogna riconoscere il merito di aver sollevato il problema. Ma la soddisfazione per ciò che denuncia Cottarelli deve essere doppia perché, forse inconsapevolmente, le sue affermazioni costituiscono la migliore riprova di quanto da tempo il centrodestra dica circa l’insostenibilità dei conti pubblici italiani in assenza di una manovra che inverta bruscamente la direzione di marcia verso il baratro imboccata dagli ultimi governi. La scelta autolesionista di aver assecondato, dal 2011, le politiche di austerity imposte da Bruxelles non ha risolto il problema dell’enorme Debito pubblico italiano. Anzi, l’ha peggiorato. Le azioni di consolidamento fiscale inasprite a cominciare dal Governo Monti non hanno fatto altro che allargare e non restringere la forbice Debito/Pil. I numeri parlano chiaro. Nel 2010 il Debito ammontava a 1.843.015 milioni di euro e il Pil a 1.548.816 milioni di euro, con un rapporto al 119 per cento. Nel 2016 il Debito è schizzato, con un andamento di crescita costante di periodo, a 2.218.471 milioni di euro a fronte del Pil a 1.680.523 milioni di euro con un rapporto al 132,60 per cento. Nel 2017 il Debito ha rallentato attestandosi a 2.275.000 milioni di euro, in base all’ultima rilevazione relativa al mese di novembre.

Quando si parla di bilancio pubblico, accanto al mero dato numerico, non si può ignorare la componente non economica di costo rappresentata dalla qualità media della vita dei cittadini. Sotto questo riguardo tutti gli indicatori dicono che essa è complessivamente peggiorata mentre l’allargamento dell’area degli incapienti e delle povertà assolute pone a rischio la tenuta della coesione sociale. Anche un analfabeta, messo di fronte all’evidenza dei numeri, capirebbe che la cura da cavallo imposta da Bruxelles all’Italia ha rischiato di ammazzare il cavallo. Fuori di metafora: non esiste alcuna possibilità concreta di ridurre il Debito se non vengono implementate politiche espansive sul fronte degli investimenti. Cottarelli ha sfidato i partiti a presentare le loro proposte di finanza pubblica per valutarne la sostenibilità. Hanno risposto all’appello il Partito Democratico, “Energie per l’Italia” che nel frattempo ha rinunciato alla corsa in solitario alle prossime elezioni, Forza Italia e “+Europa”, di Emma Bonino. Le abbiamo esaminate e la più credibile c’è parsa quella di “Forza Italia”. Perché? In primo luogo, a differenza delle altre proposte, quella elaborata da Forza Italia prende in considerazione tre diversi scenari. Ciò che convince, anche nello schema d’ipotesi meno ottimistica che prevede una crescita media, il rapporto Debito/Pil nella proiezione al 2022 regredisce al 112,78 per cento con un Pil nominale che sale a 2.033,28 miliardi di euro rispetto ai 1.716,50 miliardi di euro calcolati al 2017. Ciò significa un più 316,78 miliardi di euro in ricchezza prodotta a fronte di una spesa primaria che calerebbe in modo costante dal 45,30 per cento del 2017 fino a toccare, nel 2022, il 39 per cento. L’andamento del Pil reale, nello stesso periodo, è dato in crescita costante fino alla soglia psicologica del 2,0 per cento che si raggiungerà al termine del 2022. Considerando che il programma prevede una riduzione significativa delle entrate per effetto dell’abbassamento della pressione fiscale, se ne ricava che lo spirito con il quale la principale forza del centrodestra si prepara a tornare alla guida del Paese volge nella giusta direzione: abbattere la spesa corrente infruttuosa, aumentare gli investimenti produttivi, stimolare il mercato interno, allargare la base imponibile attraverso l’aumento del tasso d’occupazione e renderla più consistente grazie agli incrementi reddituali conseguiti dalle imprese e dalle famiglie e all’emersione dal “nero” di quella parte dei redditi da impresa e da lavoro autonomo “recuperati” alla fiscalità generale. Tutto ciò è rischioso per la stabilità dei conti pubblici nel breve periodo? Può darsi. Ma non c’è altra strada che prendersi qualche rischio per tirarsi fuori dal circolo vizioso nel quale le politiche dell’austerity hanno cacciato la nostra economia. Con i ritocchi e i pannicelli caldi si peggiorano e non si migliorano i conti pubblici.

Ciò che occorre è d’imprimere uno choc non solo al circuito dei consumi ma al sistema-Paese nel suo complesso. O si ripensa dalla radice il modello di Pubblica Amministrazione che deve servire e non tiranneggiare la collettività o si rischia l’affondamento. Se la memoria non inganna un progetto del genere una volta fu chiamato da qualcuno “Rivoluzione liberale”. Non se ne fece granché. Tuttavia quel “qualcuno” è ancora in circolazione più sveglio e combattivo che mai. Che sia questa la volta buona?

Aggiornato il 02 febbraio 2018 alle ore 11:09