La società punitiva

Viviamo nell’era della giustizia come vendetta sociale. Parola dell’avvocato Marcello Petrelli, alto rappresentante dell’Unione delle camere penali di Roma. Una vendetta promossa - anche parzialmente in maniera inconsapevole - da partiti politici e associazioni culturali di ogni tipo - di solito “anti” qualcosa - con il pratico risultato che la mentalità garantista è sempre sospetta. Il culmine opposto era stato silenziosamente raggiunto nel 1975 con il varo della Legge Gozzini in Italia, mentre in Francia spopolava il libro “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault. E gli intellettuali di sinistra di questo discettavano - cioè degli ultimi della terra e della loro condizione da reclusi - e non di come inondare le carceri di colletti bianchi. Come va di moda, invece, quantomeno dagli anni Novanta a oggi.

A margine del convegno sull’amnistia e le varie forme di clemenza promosso da ostinati giuristi che non smettono di sperare nel ritorno dello Stato di diritto in Italia, magari per intercessione di Babbo Natale o della Befana, l’aspetto più preoccupante che si coglie è questo. La società che amministra la vendetta invece che la giustizia. Magari riparativa. E da parte dei politici, che lo vedono nei sondaggi e nei risultati elettorali, c’è disillusione sulla domanda dei cittadini per una giustizia e uno stato di diritto correlati. Il veleno dell’antipolitica ormai ha invaso tutto il corpo sociale. E questa cosa trova d’accordo gente culturalmente lontana e politicamente distante come l’ex presidente della consulta, Giovanni Maria Flick, e il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, tanto per fare due nomi di partecipanti a detto convegno le cui parole potevano colpire chiunque dotato di una minima sensibilità.

Soprattutto colpisce il “non detto” ma implicito. Il populismo penale di oggi si può paragonare a una sorta  di nazifascismo del diritto. Una forzatura pratica dell’esecuzione della pena. Con un di più di un vero e proprio  “dolo eventuale”. Ad esempio insito nella sciatteria con cui viene trattata la giustizia penale dagli addetti ai lavori. A cominciare dalle carceri. Nessuno crede al valore tendenzialmente rieducativo della pena. Nessuno – ed è persino peggio – ritiene che nel carcere ci debbano essere le stesse condizioni che in qualsiasi altro ufficio pubblico, al netto della privazione delle libertà. E nessuno crede neppure all’esistenza delle “pene”. Nel senso che la pena è una “in galera!”. Come nel leggendario urlo del comico Bracardi della banda di Renzo Arbore. Partendo da questo stato di cose come premessa implicita, Ferri ricorda con un velo di amarezza come il Governo abbia colpevolmente rinunciato all’esercizio della delega nel sistema delle pene. Cioè a legiferare in materia di giustizia riparativa e diritto penale minimo. E viene pronunciato da tanti anche il problema della criminalizzazione dell’uso, consumo e detenzione di droga.

Il primo fattore di instabilità della giustizia italiana e della sua appendice carceraria, come direbbe Rita Bernardini, una delle massime autorità politiche di questi tragici problemi. Le leggi garantiste o semplicemente normali in materia di giustizia devono essere fatte passare alla chetichella quasi si trattasse di emendamenti per elargire mance elettorali o emolumenti a pioggia nella finanziaria. Sennò si scatenano quei media in malafede che guardano al loro piccolo mercato di lettori ormai ipnotizzati dal giustizialismo.

E in realtà questo emergenzialismo serve ormai solo ai suoi sacerdoti: ampiamente ridimensionato il fenomeno mafioso in Italia, resta il problema di come continuare a foraggiare i professionisti dell’antimafia. Che sono nel giornalismo, nell’associazionismo, nella parte più rampante e manageriale delle forze dell’ordine e soprattutto in quella parte di magistratura che così ha trovato una scorciatoia efficace alle proprie malcelate ambizioni politiche. La giustizia riparativa invece è dura fargliela digerire. Siamo ancora lontani dal legiferare in materia conforme allo Stato di diritto. Lo hanno ammesso tutti i partecipanti al convegno di ieri. E trattandosi di giuristi, avvocati e costituzionalisti, invece che di casalinghe intervistate dai talk-show o di vittime delle banche o comunque di incazzati in servizio permanente effettivo, sarà dura che il loro grido di dolore riesca a varcare l’aula in cui si sono riuniti.

Aggiornato il 13 gennaio 2018 alle ore 08:02