Matteo Renzi perde le truppe prima della battaglia

Adesso per Matteo Renzi si mette davvero male. In un solo giorno il leader “dem” rimedia un uno-due così violento da mandare al tappeto il più coriaceo dei pesi massimi.

Quasi all’unisono Giuliano Pisapia e Angelino Alfano abbandonano il campo di battaglia. Il primo, ammazzando nella culla la sua già fragile creatura “Campo Progressista”, si lascia andare a un disperante, italianissimo “tutti a casa!”; il secondo, consegnando una mesta dichiarazione di resa personale al notaio della “Seconda Repubblica”, Bruno Vespa, promette: non mi candiderò alle prossime elezioni, conseguentemente non farò più il ministro e neppure il deputato. Che botta per il Partito Democratico! Non è che da alleati i due capi delle liste-civetta garantissero chissà quale messe di voti al granaio del centrosinistra, purtuttavia la loro presenza in campo, nelle intenzioni dello stratega di Rignano sull’Arno, avrebbe dovuto agire da disturbo ai danni degli avversari schierati sia alla destra, sia alla sinistra del Partito Democratico.

Ora, come la storia delle grandi battaglie insegna, da Canne duecento anni prima di Cristo a Waterloo, il crollo delle ali di uno schieramento è il prologo della disfatta. Per le campagne elettorali valgono le medesime regole degli scontri campali. Matteo Renzi non può ignorarlo. Il suo piano d’attacco prevedeva che la forza d’urto centrale assicurata dal Pd fosse coperta ai fianchi da due micro-poli attrattori dei voti degli indecisi comunque gravitanti nell’orbita del centro e della sinistra. La mission per i due alleati laterali era a specchio: a Pisapia il compito di contenere la fuga degli elettori verso la nuova offerta politica, sapientemente confezionata dai volponi della vecchia guardia post-comunista, di “Liberi e Uguali”; ad Alfano la responsabilità di provare a togliere qualche voto al rullo compressore Silvio Berlusconi. Adesso che entrambi gli incaricati speciali hanno dato forfait, Renzi a chi potrà rivolgersi? Forse ad Emma Bonino e a Pier Ferdinando Casini? Se il giovanotto ha deciso di suicidarsi politicamente con un gesto eclatante proceda pure, ma gli servirà a poco perché la sua è, marquezianamente parlando, la cronaca di una morte annunciata da tempo. Almeno da quando, per somma arroganza e soverchia autostima, il leader del Pd si è dato la zappa sui piedi varando il “Rosatellum bis”: una legge elettorale che individua nel meccanismo dell’uninominale il valore aggiunto per costituire una maggioranza di governo. Per vincere nei collegi dell’uninominale bisogna che i partiti si coalizzino. Che il centrodestra non avesse problemi a farlo lo sapevano anche i sampietrini di fuori Montecitorio, ma che il Pd avesse nel taschino la sottomissione della nuova sinistra ricomposta dai fuoriusciti dall’alveo del principale partito progressista, era una fantasia tutta renziana.

Che il debole Giuliano Pisapia potesse avere la forza di radunare sotto il suo bastone tutti i dissidenti e ricondurli all’ovile “dem”, come pecore recalcitranti riportate sulla retta via dal buon pastore, era un film che s’erano fatti al Nazareno ma che non era proiettabile da nessuna parte nel mondo reale. Per paradosso i due capi fiancheggiatori cadono nello stesso giorno e per l’esplodere delle medesime contraddizioni nei rispettivi campi. Tanto Pisapia che Alfano sono vittime delle loro incapacità a tenere uniti i manipoli che, sulla carta, erano chiamati a rappresentare. L’ex sindaco di Milano lascia perché una parte dei suoi, cogliendo il pretesto della rinuncia del Pd a portare in Aula al Senato per l’approvazione la legge sullo Ius soli, gli ha notificato la decisione di voler seguire il “pifferaio” Grasso mentre soltanto un segmento residuale, capitanato dall’inossidabile Bruno Tabacci, ha insistito perché si continuasse con Renzi.

Sull’altro fianco ad Angelino Alfano è accaduta la stessa cosa. Gli è scoppiato in mano il partito dilaniato tra una fronda che, parlando con accento calabro-lombardo, smania per ritornare tra le braccia di Berlusconi e un’altra che, inebriata dall’aria che si respira alle alte vette delle cariche istituzionali, si mostra ansiosa di accasarsi nel Pd nell’illusione che gli italiani li lascino sulle poltrone a cui sono incollati dall’inizio della legislatura. L’incapacità a mettere d’accordo le due anime di Alternativa Popolare, unita alla quasi certezza di non raggiungere, nelle urne, la soglia salvezza del 3 per cento e soprattutto il timor panico sopraggiunto nel vedere aggirarsi nell’aria lo spettro di Gianfranco Fini e della sua ingloriosa sconfitta nel 2013, ha suggerito all’ex delfino di Berlusconi una rapida fuga che più del beau geste ha il gusto amaro di un indecoroso “si salvi chi può!”.

Oggi sappiamo cosa questi abbandoni significhino per Renzi e il suo partito. Ma cosa rappresentano per gli altri? Semplicemente che: 1) “Liberi e Uguali” può puntare agevolmente a un risultato a due cifre, amplificato dalla probabile vittoria in alcuni collegi dell’uninominale nelle roccaforti rosse della Toscana e dell’Emilia-Romagna; 2) Il centrodestra è più vicino alla conquista dell’autosufficienza parlamentare per il sostegno a un proprio governo; 3) I Cinque Stelle non toccano palla, investendo il terremoto delle ultime ore una platea che comunque non si sarebbe indirizzata verso la loro offerta. Se verrà rispettato l’impegno di sciogliere le Camere ai primi di gennaio, consentendo che il Paese vada al voto nella prima decade di marzo 2018, vorrà dire che, calendario alla mano, mancano meno di 90 giorni all’apertura dei seggi. Un tempo troppo breve per Renzi per invertire un trend negativo che va consolidandosi. Tuttavia, niente si può dare per scontato fino all’ultimo minuto anche perché la pratica in uso presso gli avversari, in particolare quelli del centrodestra, di farsi male da soli è uno sport mai totalmente rinnegato. A solo scopo apotropaico e per incoraggiare i vincitori in pectore della prossima competizione elettorale a non sbagliare vorremmo coniare un aforisma, parafrasando quello più celebre pronunciato da Edmund Burke: “Perché il peggio prevalga è sufficiente che i buoni facciano cazz…e”. Non sarà elegante, ma si capisce.

Aggiornato il 11 dicembre 2017 alle ore 22:06