La ricucitura del centrosinistra: fantasia guidata o dramma onirico?

La trattativa per la riunificazione del centrosinistra? Un negoziato surreale. Parola di Massimo D’Alema. Così il “lìder maximo”, mente e stratega di “Articolo 1-Mdp”, giudica il tentativo del “pontiere” Piero Fassino di ricucire lo strappo con il Partito Democratico in vista dell’ormai prossimo impegno elettorale.

Se la chiusura di D’Alema poteva dirsi scontata, meno chiare sono apparse le ragioni del rifiuto a riconciliarsi. La rottura è stata raccontata dai media all’opinione pubblica come esito di un irriducibile odio personale tra esponenti vecchi e nuovi del centrosinistra. Ma non è l’interpretazione esaustiva. Non che gli odi personali non si tagliassero con il coltello dentro e fuori le segrete stanze del Partito Democratico. L’atteggiamento arrogante e cinico del segretario Matteo Renzi, tenuto nei confronti dei suoi oppositori interni, non ha aiutato la reciproca comprensione. Ma questa è questione marginale. Il dato saliente che merita di essere indagato è quello della sincope causata al principio di continuità della linea politica dall’avvento della generazione dei “rottamatori”. Non sono state colte con nitidezza le reali intenzioni del giovane fiorentino montato in sella al cavallo “dem”. La vulgata mediatica si è concentrata sulla rappresentazione della “rottamazione” alla stregua di una guerra di potere tra persone. Invece, essa ha solo in parte riguardato la sconfitta degli avversari interni in carne e d’ossa. Maggiormente ha puntato sulla demolizione dell’intero impianto ideologico-culturale sul quale era stata costruita, nel 2007, la grande operazione d’incorporazione dell’area del cattolicesimo progressista di matrice dossettiana nel corpaccione dell’organizzazione partitica erede della tradizione comunista. Il contrasto personale tra D’Alema e Renzi non è generato da una sintesi chimica negativa di personalità incompatibili ma è il naturale sviluppo di una divaricazione ideologico-programmatica già evidente ai tempi della dialettica muscolare tra lo stesso D’Alema e Walter Veltroni.

L’odierna rottura è figlia del momento storico nel quale il nascente Partito Democratico cambia il proprio orizzonte visuale rinunciando a rappresentare le istanze della classe operaia e, per estensione, dei ceti disagiati e abbraccia la causa dei nuovi ceti medi, espressione della mutazione genetica del capitalismo indotta dalla globalizzazione. La contrapposizione sull’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ne è l’emblema. Esiste in Italia una porzione di popolazione che crede nella praticabilità degli ideali valoriali del socialismo novecentesco. E questo segmento di società chiede di essere rappresentato da un soggetto politico totalmente diverso dal Partito Democratico geneticamente modificato dalla “diversione” renziana. Su di una cosa Pier Luigi Bersani ha ragione da vendere nel rifiutare ogni possibile ipotesi di rassemblement in chiave elettoralistica: i delusi dal Pd non è che torneranno a votare il centrosinistra per il solo fatto che questo si ripresenti unito.

Il momento topico che segna la crisi di coesistenza della corrente vetero-socialista nel partito unico dei progressisti non è stato il referendum costituzionale dove plasticamente si è resa visibile la rottura in atto ma le elezioni del 2014 per le regionali dell’Emilia e Romagna. L’establishment renziano si precipitò a nascondere la débâcle parandosi dietro la vittoria del suo candidato, Stefano Bonaccini. Poco o nulla si disse del fatto che nella regione più “rossa” d’Italia, da sempre roccaforte della sinistra egemonizzata dal Partito Comunista Italiano, si era recato a votare il 37,71 per cento degli aventi diritto, contro il 68 per cento delle precedenti elezioni. Il Pd, nella circostanza, ha raccolto 535.109 preferenze. Nel 2010, candidato Vasco Errani, il Pd aveva ottenuto 857.613 voti. Con l’avvento della svolta renziana nella regione “rossa” i “dem” perdevano il 37,60 per cento dell’elettorato che la volta precedente aveva votato Vasco Errani. Era il primo chiaro indizio di una lacerazione profonda nel tessuto connettivo della base storica della sinistra. Negli anni successivi lo sfilacciamento non è stato suturato ma, al contrario, è stato acuito. Risultato finale: la scissione e la nascita di un soggettivo politico nuovo in grado di intercettare quello specifico bacino elettorale.

D’Alema, Bersani e soci non hanno fatto altro che rispondere a un’elementare legge della politica: gli spazi vuoti si riempiono. Per evitare che fossero le forze antisistema del grillismo o la proposta sovranista e identitaria della Lega a occuparlo, i vecchi compagni di una volta si sono ritrovati non per una rimpatriata all’osteria ma per ricostruire un’offerta politica che altrimenti sarebbe stata dirottata verso altri lidi o arenata sulle secche dell’astensionismo. Torneranno gli “ex” a trattare con i superstiti della “diversione” renziana? Probabile, ma certamente dopo le elezioni nazionali, a bocce ferme e a rapporti di forza consolidati. È così che i matusa si preparano a impartire alla nouvelle vague del Nazareno una lezione tattico-strategica di alta scuola.

Aggiornato il 27 novembre 2017 alle ore 10:10