A sinistra si litiga, sai che novità

Roberto Speranza versus Giuliano Pisapia. Il primo si fa intervistare dal Corriere della Sera per dire che “non si può più perdere un solo minuto e neanche stare lì (Pisapia, n.d.r.) a parlare tutti i giorni di nomi dei big, invece che di proposte”. L’ex sindaco di Milano non ci sta a fare la parte del “Re Tentenna”. “Speranza non aspetta? Non c'è problema, gli auguro buon viaggio”, questa la risposta, piccatissima.

Si potrebbe dire che siamo alle solite quando si parla della sinistra. Da Livorno in poi (era il 1921) per gli eredi di Karl Marx è sempre stato più facile dividersi che unirsi. È la cifra della rigida ortodossia che, con disperante puntualità, fa capolino nei ragionamenti dei leader e delle organizzazioni un tempo socialiste e comuniste, oggi democratiche e progressiste. È questione di egemonia interna al partito, allo schieramento, alla coalizione: se non si ha lo scettro del comando non è garantita la purezza della linea politica. Allora meglio perdersi da soli che ritrovarsi con le compagnie sbagliate. E quale compagnia più indesiderabile di quella di Matteo Renzi? L’idea forte che ha spinto un pugno di vetero-socialisti con un passato nel Partito Comunista Italiano ad andarsene dal Partito Democratico è stata di ricreare un polo attrattivo per un elettorato orfano di una coerente rappresentanza politica. Colpa della “fusione a freddo” con la quale è stato generato in vitro il Pd e che ha riservato esiti sorprendenti.

Nel 2008, regnante Walter Veltroni, il timore per un abbraccio giudicato troppo spinto era che la componente del cattolicesimo democratico proveniente dai ranghi della defunta Democrazia Cristiana restasse schiacciata dalla forza preponderante della parte ex-comunista che aveva tenuto in piedi, anche dopo “Tangentopoli”, la macchina-partito. Invece, dopo soli nove anni, è accaduto qualcosa d’inatteso: i rampolli del vecchio sistema di potere democristiano si sono presi il Pd mettendo alla porta i nipotini di Palmiro Togliatti. È perciò comprensibile che la frattura tra queste due anime sia insanabile. Non è solo questione di non piacersi l’un l’altro. Il Pd renziano ha sviluppato una visione del futuro che è profondamente diversa da quella immaginata dalle parti di “Articolo 1”. Ed è questa fenditura ontologica che rende vano avventurismo ogni tentativo di ricucitura. Compreso quello di Pisapia. Il gentile avvocato milanese ragiona usando le categorie della politica al tempo dell’Ulivo, ma che non sono più attuali nell’odierno contesto. D’altro canto, se lo fossero state ancora nel 2013 oggi il Presidente della Repubblica non sarebbe Sergio Mattarella, ma Romano Prodi.

Come finirà? È possibile che Pisapia si presti a un’operazione tattica già sperimentata con Mario Monti, che inventò dal nulla “Scelta Civica” per drenare consensi dal serbatoio elettorale della destra. Oggi si potrebbe pensare a un analogo schema a sinistra. Un cast di nomi famosi: da Carlo Calenda, ministro liberal del Governo Gentiloni, a Emma Bonino, la radicale che piace ai poteri forti. Tutti insieme appassionatamente per un album Panini da presentare alle prossime elezioni accanto al Partito Democratico, a copertura del fianco sinistro della coalizione. L’obiettivo, molto renziano, sarebbe quello d’isolare la vecchia guardia ex-Pci. Progetto suggestivo, ma con qualche lacuna. La sensazione è che renziani e antirenziani facciano i conti senza l’oste. E chi sarebbe il convitato di pietra di cui non sembra tenersi il giusto conto? La Cgil, ovvio! Non è indifferente capire cosa farà il sindacato che ha sempre esercitato un qualche ruolo nel determinare gli equilibri a sinistra. L’ingresso di Maurizio Landini, in uscita dalla sua “Fiom”, nella segreteria confederale della Cgil ha un significato politico non trascurabile. Quanto l’intransigenza del personaggio Landini condizionerà la politica tradizionalmente soft con i governi di centrosinistra delle recenti segreterie confederali? Un’improvvisa sterzata massimalista potrebbe portare “Articolo 1” ben oltre lo steccato del 3 per cento. E per l’ambizione renziana di tornare alla guida del Paese sarebbe la tomba. Alle viste c’è il test delle regionali siciliane. La sfida nella sfida tra Claudio Fava e Fabrizio Micari sembra fatta apposta per misurare la temperatura alle due anime della sinistra. Se il primo dovesse prendere più voti dell’altro, la dirigenza “dem” sarebbe ancora dell’idea di riuscire a “stracciare” alle politiche i fratelli-coltelli di “Articolo 1”? Consentiteci qualche dubbio.

Aggiornato il 09 ottobre 2017 alle ore 19:36