Fallimenti (e successi) delle élite italiane

Sul Corriere della Sera Paolo Macry recensisce l’ultimo libro di Paolo Mieli, “Il caos italiano - Alle radici del nostro dissesto” (Rizzoli, pagg. 352, 20 euro). Paolo Mieli interviene spesso, dalle pagine del “Corriere”, sui temi storici più svariati, sempre con il piglio e la leggerezza del giornalista.

In questo libro, invece, mette il luce un suo “profilo ambiguo” di lettore e saggista, “a metà tra presente e passato”, attento alla “prospettiva storica” e ai “tagli cronologici lunghi”: una attitudine che gli consente “chiavi di lettura dell’attualità non comuni tra gli osservatori  politici”. Con l’occhio  sul presente, Mieli ora risale indietro, alle “origini” del Paese, lì dove affondano le radici dell’oggi e dei problemi che conosciamo e lamentiamo. Con quale risultato? Il titolo della recensione di Macry è già eloquente: “Élite d’ItalIa, quanti errori”.

“Il nocciolo del problema – così Macry sintetizza Mieli – fu l’affermarsi di una discutibile prassi politico-istituzionale che si sarebbbe radicata a tal punto da segnare la storia successiva del Paese”. Nel 1876 cadeva, messo in minoranza in Parlamento, Marco Minghetti, esponente della Destra “storica” risorgimentale, e saliva al governo Agostino Depretis, leader della sinistra. Depretis “cercò e trovò in Aula la sua maggioranza”, arrivando a stipulare accordi con lo stesso Minghetti, così “dando vita a un asse tra la Sinistra e importanti pezzi  della Destra”. Nasceva quel metodo di governo che venne definito, spregiativamente, “trasformismo”. Secondo Mieli, il trasformismo è alla radice, appunto, del “caos italiano”, sue filiazioni o emanazioni hanno segnato, di fatto, tutta la storia italiana fino ai giorni nostri.

Le classi politiche e culturali – le élite còlte – furono, nel giudizio di Mieli riferito da Macry, impari al compito. Non concepirono, e tanto meno attuarono, l’alternanza, (“alla Westminster”) essenza stessa della democrazia liberale. Non a caso Mieli punta il dito sul comportamento di un Benedetto Croce, cui  viene attribuita una sicura fede liberale, che manifesta “benevolenza” verso il movimento di Benito Mussolini, appoggia il suo governo, concede il “disco verde” alla Legge Acerbo che prevedeva - quanto siamo nell’attualità! - l’attribuzione di un largo premio di maggioranza al partito uscito vincitore delle elezioni, nonché, nel luglio del 1924 - cioè dopo il delitto Matteotti - il voto di fiducia.  

Sempre seguendo il filo del racconto di Macry (che, con la sua perspicace rielaborazione ci invoglia a leggerlo in diretta, il corposo saggio), Mieli è non meno aspro con quei segmenti di intellettualità che sottoposero a severa critica, agli inizi del Novecento, “se non il parlamentarismo tout court, di certo le performance del  Parlamento del dopoguerra”, così contribuendo, contraddittoriamente e certo inconsapevolmente, all’avvento del fascismo.

Insomma, Mieli affonda spietatamente la sua critica nel ventre molle dell’intera storia del Paese, attribuendo la responsabilità delle sue crisi, insufficienze ed errori, alle élite che via via si sono succedute. Diverse tra loro, ma come accomunate da un identico, negativo e pernicioso Dna. Qui però - a nostro modesto avviso -  c’è un punto che mette in difficoltà questa ricostruzione; precisamente quando - scorro sempre la recensione  di Paolo Macry - Mieli dedica “molte pagine agli aspetti peculiari del processo risorgimentale”, tra i quali non va dimenticato “il carattere estremamente minoritario delle élite in un paese di analfabeti”. É un punto essenziale. Nella sua famosa “Storia linguistica dell’Italia unita”, Tullio De Mauro sottolinea che, al momento dell’Unità, parlava correntemente l’Italiano solo il due per cento della popolazione. Quel popolo di analfabeti subiva, per soprammercato, il giogo di una Chiesa necessariamente ostile nei confronti del processo unitario (nonostante che questo fosse opera, essenzialmente, di cattolici osservanti).

Come dire che le élite risorgimentali vinsero su una immensa Vandea refrattaria, comunque sorda. In notevole misura esse non rappresentavano l’Italia, forse addirittura la conquistarono. Credo che sia un caso unico quello che vide la (futura) Capitale del Paese essere non alla guida del processo unificatore, come accadde a Parigi o a Londra, ma conquistata - appunto - a colpi di cannone. È diffusa la lamentazione che l’Italia non abbia avuto una Riforma. Porta Pia è stata la Riforma italiana, e sul piano storico o etico l’evento non va considerato di importanza inferiore alla Riforma innescata da Lutero, Calvino, ecc..

Le élite risorgimentali e post-risorgimentali non attuarono politiche “popolari”, furono spesso, con la Destra, impopolari e oppressive, perfino brutali con il Crispi che ordina la repressione dei “Fasci siciliani”. Questo distacco restò sempre forte, i cattolici del “non expedit”, il Partito Radicale, i socialisti e gli stessi popolari, portatori di esigenze “democratiche”, furono visti come elementi eversivi. Le élite di eredità “liberale” restarono chiuse in se stesse. Non casualmente, Benito Mussolini giocò sull’antiparlamentarismo diffuso, per portare finalmente il “popolo” al potere.

La storia d’Italia è quella di un Paese che ha dovuto recuperare in un pugno di anni vicende politiche e istituzionali che altrove erano state di durata secolare, e avevano visto le élite formarsi e stabilizzarsi in processi lunghi, anche essi peraltro  complessi e dolorosi. Vogliamo riconoscere che la minoranza cui si deve l’Unità fu, con tutti i suoi difetti, genialmete all’altezza dei propositi e delle attese, anche se portò con sé – come ci ricorda opportunamente Mieli – problemi e mancanze destinati a restare a lungo  irrisolti?

Aggiornato il 10 ottobre 2017 alle ore 15:55