Se Barcellona chiama, Milano e Venezia non rispondono

Il referendum in Catalogna rimanda, quasi fosse un riflesso pavloviano, alla consultazione referendaria indetta dalle Regioni del Veneto e della Lombardia per il prossimo 22 ottobre. In ballo c’è la domanda di maggiore autonomia che quei territori rivolgono allo Stato centrale. Più competenze esclusive si traducono in maggiori risorse economiche da trattenere in loco e da non dover trasferire alla macchina amministrativa nazionale. Gli interessati al successo della consultazione, in particolare i governatori leghisti Luca Zaia e Roberto Maroni, in queste ore si stanno spendendo per spiegare che l’iniziativa lombardo-veneta non è sovrapponibile a quella catalana. Per modalità, per metodi e per contenuti. I referendari nostrani non propugnano la secessione dall’Italia. Al contrario, inquadrano la consultazione nella previsione dell’articolo 116, 3° comma della Costituzione che consente la concessione da parte dello Stato alle singole Regioni di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell'articolo 117”.

Diversamente da Barcellona, l’iniziativa che corre sull’asse Milano-Venezia è stata benedetta dalla decisone della Corte costituzionale che ha ammesso il quesito referendario. Da Roma, dunque, la notte del 21 ottobre non partiranno i reparti d’assalto del ministro dell’Interno Marco Minniti per impedire ai cittadini del Nord l’accesso ai seggi. Inoltre, la natura del referendum nostrano è squisitamente consultiva, cioè non è destinato a produrre alcun effetto sull’ordinamento giuridico vigente. Un eventuale plebiscito in favore della richiesta di maggiore autonomia giuridica e fiscale delle Regioni interessate costituirebbe solo un buon viatico per la trattativa con il Governo. Ma se questo esercizio di democrazia è tanto innocuo, perché desta tanta attenzione? Se non è come in Catalogna, perché preoccuparsi? Non siamo ipocriti! Ciò che fa paura sono le ricadute politiche. Per quanto i governatori interessati si diano da fare a moderare i toni, neanche a un cieco sfuggirebbe di vederci dietro una spinta alla divisione del Paese. Perché ciò che rende la vicenda lombardo-veneta simile a quella catalana è l’impatto psicologico dell’iniziativa referendaria. Dietro ai numeri si cela a fatica il desiderio di rappresentare non una naturale diversità di due Regioni rispetto al resto del Paese, ma un intrinseco senso di superiorità di esse rispetto al contesto generale. Condizione suffragata dai migliori risultati raggiunti in termini di produzione della ricchezza.

Qual è il refrain? “Date più libertà alle locomotive produttive d’Italia”; “Più soldi a chi meglio amministra e pedate a quelli inefficienti”; “Padroni a cosa nostra con i nostri soldi”. E via di questo passo. Frasi in sé comprensibili, ma sono slogan. La sostanza resta più complicata. E riguarda il riassetto dell’architettura istituzionale dello Stato. Dobbiamo decidere una volta per tutte se l’Italia dovrà definitivamente convertirsi al paradigma federalista o continuare a essere uno Stato a centralizzazione temperata. Prima di parlare di maggiore autonomia del Lombardo-Veneto c’è da ridiscutere le condizioni di vantaggio assicurate, negli ultimi settant’anni, alle Regioni a Statuto speciale. Se, invece, un effetto immediato si produrrà a seguito della consultazione del 22 ottobre sarà quello di riscrivere l’agenda della prossima campagna elettorale. Sul tavolo del confronto ci sarà meno la questione securitaria indotta dai flussi migratori, a dispetto dei desideri del leader leghista Matteo Salvini, mentre tornerà in auge la problematica del federalismo fiscale, a suo tempo affrontata dal Governo Berlusconi nel 2008. Pochi ricordano che il Parlamento approvò nel 2009 la Legge n. 42 per la delega al Governo in materia di federalismo fiscale. Il ministro delle Riforme istituzionali, Roberto Calderoli, lavorò alla stesura dei decreti delegati riuscendo a coinvolgere nel processo normativo anche una parte delle forze d’opposizione. Calderoli avrebbe condotto in porto la riforma se quella stagione di governo non fosse stata bruscamente interrotta dal “golpe” del 2011.

Dopo il 22 di ottobre sarà inevitabile che di federalismo si riparli in vista del rinnovo della legislatura. Non tutti ne saranno felicissimi, a cominciare dallo stesso Salvini il quale non può non cogliere nell’iniziativa dei suoi compagni di fede, Zaia e Maroni, un bel trappolone teso ad azzoppare la sua strategia di riposizionamento della Lega in chiave sovranista. Ecco perché l’appuntamento del 22 ottobre potrebbe mostrarsi ben più insidioso della picaresca spacconata andata in scena la scorsa domenica in Catalogna.

Aggiornato il 03 ottobre 2017 alle ore 18:06