Una Repubblica fondata sull’ipocrisia

In questi ultimi giorni la cronaca ci ha offerto lo scandalo dei concorsi universitari e le modifiche al Codice antimafia approvate in via definitiva dal Parlamento. Il nesso fra le due vicende, a tutta prima, può sembrare labile; in realtà questi avvenimenti appaiono tra loro legati da un filo neppure troppo sottile.

Prendiamo le mosse dal procedimento contro i professori di diritto tributario al tempo stesso prescindendone. Anche i bambini sanno che per il reclutamento dei docenti nell’università italiana si “scontrano” un sistema, teorico, basato sui concorsi ed uno, pratico, fondato sulla cooptazione. Si tratta, all’evidenza, di due sistemi incompatibili tra loro, ma nel più consolidato malcostume italiano si sceglie di non scegliere. Eppure sarebbe facile. Se si segue il sistema dei concorsi, si bandisce periodicamente un concorso selettivo, con garanzia di anonimato dei candidati, per accedere ad un ruolo unico di docente, dal quale poi le singole università attingeranno i professori. Oppure si sceglie il metodo della cooptazione, il quale non va necessariamente criminalizzato; per esperienza personale e diretta so che tra il cosiddetto maestro e l’alunno si creano nel corso degli anni rapporti di sincera stima, per cui diventa naturale che il primo voglia sostenere il secondo.

Ma questo metodo – che, per chiarezza, è quello che chi scrive sostiene – deve essere declinato per intero: abolizione del valore legale del titolo, e docenti tutti a contratto. Le università, chiamate per davvero a confrontarsi col mercato, avrebbero tutto l’interesse a valorizzare l’unico asset, sia pure immateriale, che possiedono, ovvero la qualità del proprio corpo docente.

Che fa la politica? Nulla di tutto questo. Si fa finta di niente fino all’esplodere di un qualche scandalo, lasciando alla magistratura il compito di regolare con il diritto penale fenomeni che con il processo non hanno niente a che vedere, liberandosi, per un verso, dell’incombenza di scegliere, e per l’altro, solleticando la pancia di un’opinione pubblica sempre più frustrata e indignata.

Le stesse ventate di populismo giustizialista stanno alla base del nuovo Codice antimafia. Anche in questo caso, pure i bambini sanno che la continua pan-penalizzazione a nulla serve per contrastare e curare i grandi mali sociali quale, appunto, la corruzione. E lo sanno anche i nostri politici, che però, nuovamente, fanno finta di niente, perché prevedendo sempre nuove punizioni draconiane si possono lucrare quote di consenso elettorale e perché di sicuro è meno impegnativo che mettere efficacemente mano a soluzioni politiche ben più sofisticate ed efficaci (riforme socio-politiche, prevenzione, educazione, ecc.). Ed ecco il capolavoro: si inseriscono nel novero delle persone potenzialmente destinatarie delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia anche i presunti corrotti.

E non interessa che il nostro paese sia stato condannato dalla Corte europea de diritti dell’uomo (sentenza 23.2.2017 nella causa De Tommaso contro Italia) in relazione alla possibilità di applicare misure di sorveglianza speciale preventive sul presupposto di una generica pericolosità sociale di certi individui. E non interessa che il sequestro dei beni sulla base di un sospetto costituisca un oltraggio alla presunzione di innocenza. E non interessa che la tenuta costituzionale delle nuove norme sia alquanto incerta, poiché l’estensione della confisca cosiddetta “allargata” al di fuori dell’ambito del crimine organizzato appare, anche a prima vista, carente di fondamento giustificativo (quale base empirica consentirebbe la semplificazione degli oneri dell’accusa circa la prova dell’origine illecita del patrimonio di un presunto corrotto?) e, dunque, sindacabile dalla Corte costituzionale. Pazienza, tanto ancora e sempre ci si rivolge al vasto pubblico di tricoteuse inebetite dai talk-show serali, perfetto “parco buoi” in vista di future elezioni.

Lo stravagante paradosso che il governo abbia accompagnato la norma appena approvata con una sorta di ordine del giorno interpretativo che ne limiterebbe l’estensione applicativa dimostra plasticamente la validità di quanto fin qui sostenuto: la peggiore classe politica della storia repubblicana è riuscita a sfasciare, allo stesso modo, università e diritto penale.

Aggiornato il 28 settembre 2017 alle ore 18:51