I nemici del “pensiero unico”

Alain Finkielkraut è uno dei pensatori più in voga (e controversi) nella Francia dove è nato, da famiglia di ebrei polacchi scampati alla shoah, ma anche in Europa e persino in America (dove è accolto come un vero e proprio “neocon”).

Le sue critiche alla modernità - con i suoi miti e riti poveri di senso del sacro, laicisti senza laicità - sono pesanti, ma in definitiva ricalcano quelle da gran tempo diffuse ad opera di pensatori che è persino troppo facile definire reazionari, anche se i loro bersagli sono evidenziati, in blocco, nell’indice di qualuque enciclopedia “progressista”. Scherzando, potremmo definirlo un Bartali del pensiero: “Gli è tutto sbagliato...”. Certo, le cose non sono così semplici, un bel po’ delle sue critiche sono azzeccate, il mondo moderno è assai complesso e possiamo anche fare a meno, nel parlarne, della vulgata della cosiddetta modernità, definizione troppo ampia e vaga, cui non possono, ovviamente, essere addebitati tutti gli enormi problemi in ballo.

Sul pensiero di Finkielkraut si sofferma Giuliano Ferrara (vedi “Il Foglio” del 24 settembre), anche lui critico della modernità, pur se in modi meno sistematici - e più attenti alla “politicità” - del pensatore francese. Ferrara non considera Finkielkraut un “apocalittico”, e nemmeno un “declinista”, piuttosto un “ottimista già gauchiste che si è informato, dunque un realista”. Per il Finkielkraut à la Ferrara i “territori perduti della Repubblica”, vale a dire “l’identità repubblicana, laica e sicura di sé e della sua lingua nazionale”, sono irrecuperabili. E non è colpa (solo) dell’Islam, le vere responsabilità ricadono sull’“establishment” culturale politico, despota egemone, nelle sue molteplici varietà (anche radical chic), nei gangli sensibili della società, del Paese, e solidalmente partecipe di tutte le pecche del “pensiero unico”, che è la forma mentis della modernità. Naturalmente, anche Finkielkraut detesta Papa Francesco, teologicamente lassista e corrivo nei confronti di quelle pecche.

Ho riferito, più o meno bene, più o meno correttamente, il sontuoso ritratto di Finkielkraut che ci fa Ferrara. Adesso, con un salto che spero sia comprensibile, spostiamoci nella Germania postelettorale oppure, e ancor meglio, nell’America di Donald Trump. Sia nel Paese che è cuore d’Europa che in quello d’Oltreoceano, classi dirigenti impregnate, nella loro diversità, di quel “pensiero unico” che Finkielkraut detesta, sono state travolte dall’ondata di riflusso dei loro avversari e nemici, i nemici storici - in nome dell’identitarismo, del pauperismo, ecc. - della modernità coi suoi riti e miti. In Germania la disfatta è ancora parziale, Angela Merkel è intenzionata a reggere per l’intero mandato la barra del governo, ed è probabile vi riesca, per evidente mancanza di serie alternative; nessuno invece può lontanamente prevedere il ritorno al governo dei suoi corrispondenti d’Oltreoceano, le élites liberal del nordest o della California, di Chicago o San Francisco. Le conseguenze, già in atto negli Usa e prevedibili in Germania qualora la crisi si aggravasse, preoccupano Ferrara (di Finkielkraut non sapremmo dire): Trump e il suo “circolo magico” gli appaiono quantomeno inaffidabili, e non credo abbia (giustamente) una grande stima per il leader della socialdemocrazia tedesca, Martin Schulz.

Così, forse, si sente vagare nell’aria un po’ di nostalgia per il detestabile “pensiero unico”. Che, con tutti i difetti e le responsabilità che gli vengono addossati, ha sicuramente il merito di aver fornito all’Occidente, nel secondo dopoguerra, alcuni fondamentali concetti e valori che hanno garantito la stabilità alle sue democrazie.

Quel “pensiero unico” non può essere fatto rivivere - artificialmente! - nelle forme che abbiamo conosciuto. Che cosa ne sia salvabile è difficile sapere, dobbiamo comportarci come i rom a Roma, che frugano nei cassonetti dell’immondizia per trarne fuori quanto appaia riutilizzabile. Ma intanto sarebbe bene renderci conto che il “pensiero unico” non era una vernice piatta, insapore, che colorava in superficie le nostre società; era invece il prodotto, la conquista di almeno due secoli di lotte ideali e politiche, dunque sempre a rischio, insidiata da ogni parte, sempre in bilico e deperibile. Sono bastati appena un paio di decenni ad eroderne le basi e farlo crollare. Più che criticarlo, occorreva difenderlo con passione, fermezza e tenacia.

Giuseppe Parini compose il suo famoso poemetto, “Il Giorno”, come virulenta satira della aristocrazia francese ed europea dell’“Ancien Régime”. Non lo terminò, perché a un certo punto scoppiò la grande rivoluzione e lui non se la sentì di infierire ancora su uomini e donne che, innocenti, venivano processati, condannati e ghigliottinati. Finkielkraut e gli altri critici del “pensiero unico” dovrebbero seguire il suo esempio. L’obiettivo delle loro critiche è sparito, inghiottito dalla storia.

Aggiornato il 28 settembre 2017 alle ore 19:20