M5S, e se vincessero loro?

Ogniqualvolta, mettiamo in una grande città e, si fa per dire, mettiamoci subito Roma, si combattono due candidati alla suprema carica, raramente i fans dell’uscente si pongono l’interrogativo, non poco angoscioso: e se vincessero gli altri, quelli della concorrenza, nel caso romano, i pentastellati guidati da Virginia Raggi?

Eppure, a ben vedere, questa domanda, ancorché pesante, andrebbe posta e riposta, e non soltanto ai tifosi dell’uscente, ritenuto in genere più facilmente entrante dell’altro. Il fatto è che qualsiasi interrogativo a proposito di un evento come quello verificatosi nella Capitale - vuoi anche per gli spot sparati da mattina a sera sulla sua qualità mafiosa - andrebbe non solo o non tanto vivisezionato ma, quel che più conta, spiegato all’elettore. Il fatto è che tale vivisezione non può non svolgersi, soprattutto apertis verbis, sulla base cioè del programma dell’avversario, sì da rivelarne i deficit programmatici, le lacune propositive, le acrobazie demagogiche, le urla populiste e l’incitamento alla gogna contro i politici, che ne sottolineano i punti salienti trasformati a loro volta in vuoti a perdere. Ovvero, vuoti di idee.

Quale era il programma pentastellato se non, allora come oggi, dalla Capitale in su e in giù e abbandonate le visionarie e utopiche immaginazioni di Casaleggio senior, una sequela di “non se ne può più”, una giaculatoria sulle infamie consumate dagli amministratori di sempre, un rosario di insulti contro corrotti e mafiosi (cioè tutti gli altri) da liquidare come il drago immondo ad opera del novello San Giorgio, puro siccome un giglio, onesto come San Francesco, duro come il Santo a cavallo, appunto? A parte il dato ormai acquisito che la povera Raggi è colpevole soprattutto di incapacità, sia pure con forti auto-iniezioni di presunzione, era ed è ben difficile trovare nel suo programma elettorale alcune semplici e non impossibili ricette, che noi chiamiamo idee, contro lo stesso malaffare corruttivo diffuso (da cui fu cassata, dopo - attenzione, non prima, dopo - l’accusa di mafia Capitale che, comunque, qualche aiutino, ha dato), e cioè: meno spesa, meno debito pubblico, meno tasse, più trasparenza, privatizziamo invece di pubblicizzare.

Quest’ultima delle privatizzazioni, soprattutto a Roma, non è loro ma è un’idea dei Radicali, dalla cui storia, a cominciare dai referendum, il loro analfabetismo politico avrebbe da imparare qualcosa invece di ridursi a una reazionaria lotta in nome e per conto dell’antipolitica, contro il parlamento e le istituzioni democratiche, fra un insulto giustizialista e un’urlata populista. Nulla di concreto e di possibile - ma non innocuo, anzi - nella nube di vaghezza propositiva che avvolge una tiritera di promesse senza capo né coda, e dunque ingannatrici, una sequela mediatica di finti progetti destinati a vivere quanto uno spot televisivo perché avulsi da concretezze e possibilità realizzative.

E “last but not least”, quella che un sempre geniale Pietrangelo Buttafuoco ha definito come “farlocco e fumo negli occhi, la decisione dei vitalizi” da confrontare rispetto al decisionismo, quello vero, dei cugini d’oltralpe: la sola bandiera francese a garrire sui cantieri navali, i sospetti non ingiustificati sull’efficacia della politica aziendale di stato all’italiana, il cessate il fuoco in Libia e relative elezioni, predisposizione di hotspot per migranti in agosto, e così via.

Un sospetto viene anche a noi e riguarda proprio la natura più profonda della politica nazionale francese che ha il culto della programmazione e che, dunque, rielabora le previsioni del futuro di altri Paesi, soprattutto se cugini come il nostro, sulla base di riflessioni e ragionamenti e raffronti politici nei quali, soprattutto in previsione delle elezioni generali come da noi, l’interrogativo: e se vincessero loro, gli altri, i grillini, e andassero al governo, non di un comune ancorché importante come Roma, ma dell’Italia, che ne sarà della politica industriale, delle aziende di stato? Scommettiamo che a quel diavolo di un Emmanuel Macron l’ipotesi di un Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, con conseguenti, inevitabili, devastanti danni per il ciò che resta del sistema paese, e anche per “Douce France”, sia passata per la testa? Come si dice da noi, a pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina. Pensiamoci pure qui da noi, fin che siamo in tempo, all’ipotesi che deve aver tanto impensierito l’Eliseo.

Aggiornato il 31 luglio 2017 alle ore 21:37