Dunque si può dire che la mafia non c’è (a Roma)

Tra tante sciagure e sciocchezze, una notizia buona: almeno a Roma la mafia non c’è. Così ha detto il Tribunale. Certo, restano le sciocchezze, ma da quelle non c’è Tribunale che ci liberi.

“Mafia Capitale”: per mesi e anni era diventato lo slogan di leghisti, meridionalisti dozzinali, pentastellati, giustizialisti di destra e di sinistra. A me, non faccio per vantarmi, a quel preoccupante slogan sembrò sempre che si potesse rispondere parafrasando la scritta di un manifesto elettorale particolarmente cretino, per sbracata imitazione grillina, della propaganda elettorale del povero Ignazio Marino (“questa non è politica, è Roma!”) da cambiare in: “Questa non è mafia, è Roma”.

Ora il Tribunale, dopo tante discussioni e tanti dubbi sulle imputazioni mosse a ladroni e ladruncoli nel processo a Carminati e soci ha detto proprio questo: “Non è mafia, è Roma”.

Amo questa Città, ma l’amava anche di più il Belli che, a proposito di “mance” (progenitrici piccine delle tangenti) scriveva: “Si dura Roma ha da durà cusì. Ma voglio lasciar perdere la storia (il che, poi, è impossibile). Dire “la mafia non c’è” e sentirlo dire da un Tribunale non è cosa da niente. Nella teologia di quella che Vitiello chiama “la mafia devozionale”, l’esistenza della mafia è un dogma. Negarne l’esistenza è come negare quella del Diavolo al tempo del governo dei preti; un po’ come negare l’esistenza di Dio. Roba da fare la fine di Giordano Bruno. Certo, si tratta, oggi, di un dogma “regionale”; a Palermo solo uno con la vocazione del martirio o con tendenze masochiste potrebbe dire “la mafia non c’è”, anche solo per formulare un’ipotesi, contestare l’attualità di una denominazione, proporre un termine diverso (di cui non oso fare esempi).

Chi dice “la mafia non c’è è comunque identificato come mafioso, nemmeno solo “concorrente esterno”. C’è, dicono, libertà di pensiero e di parola. Ma, poi, ci spiegano che a tutto c’è un limite. Per fortuna c’è un limite geografico anche a queste “interpetrazioni” della Costituzione, oltre che, pare, alla Mafia, della quale già da tempo era stato accertato che, benché sbarcata ad Ostia-Fiumicino, era rimasta “inchiodata sul bagnasciuga”, come invano Benito Mussolini aveva ordinato che si doveva fare con lo sbarco degli anglo-americani. Il guaio è che, se, almeno per ora, non è reato e si può non finire sul rogo affermando che in parte del territorio nazionale la mafia non c’è, l’antimafia “devozionale” suscettibile e, soprattutto, i professionisti dell’antimafia. Anche e soprattutto quelli togati, ce ne sono in abbondanza “dalle Alpi alla Sicilia” e fanno ottima carriera un po’ dovunque.

Ma con certi amici c’è poco da scherzare. Questa storia della sentenza dei “magnaccioni” di Roma Capitale cui è stato negato il “marchio di qualità mafioso” è comunque una buona notizia (anche perché ai “magnaccioni” alla matriciana non sono stati risparmiati anni di galera). Ma, come dicevo all’inizio, la buona notizia non esclude le sciocchezze o, per il rispetto dovuto anche alle opinioni di alcuni amici tutt’altro che sciocchi che hanno parlato e scritto sull’argomento, diciamo pure le obiettive storture di questa vicenda.

Il processo per “Mafia Capitale” era nato male, sulla base di una norma infelice tra le infelicissime “novelle” del nostro Codice penale, l’articolo 416 bis. Un altro caso di “fattispecie penale apparente” o “aperta” secondo la classificazione della loro incostituzionalità per inidoneità a soddisfare il precetto del “principio di legalità” imposto dall’articolo 25 comma 2 della Costituzione, secondo l’insegnamento della sentenza Volterra della Consulta.

Quando fu istituito il reato di “associazione di stampo mafioso” io ero deputato, ma il padre-padrone del Partito Radicale aveva voluto che lasciassi il posto in Commissione Giustizia ad altri di me più “idonei”. E quella norma, che ha infestato la nostra giustizia penale per decenni, fu approvata senza “passare per l’Aula”, in Commissione. Me ne occupai subito dopo come avvocato, contestandone, naturalmente senza ombra di successo, la legittimità costituzionale. Non starò qui a ripetere gli argomenti di quel mio poco fortunato tentativo. Ma provate anche voi a leggere l’articolo 416 bis. Lo leggerete e lo rileggerete come diceva Marciano insegnando ai suoi giovani colleghi a “trovare” i motivi di ricorso. E vi accorgerete che più lo leggete e meno chiaro ne è il significato, così da dover concludere: è associazione di stampo mafioso quella composta da mafiosi. O giù di lì. E allora si capisce perché quella di Massimo Carminati “non è mafia”. È Roma. La Roma di Giuseppe Gioachino Belli, delle mance e degli “strozzi”, dei Papi e dei Cardinali nepotisti, delle manifestazioni di pietà religiosa in moneta sonante, dove la legge c’è, ma “un ladro che tie’ a mezzo chi commanna e cià donne che l’arzino la vesta rubbassi er palazzon de Propaganda troverete er cazzaccio che l’arresta ma non trovate mai chi lo condanna”.

Magari oggi è più facile essere arrestati e condannati, anche, e soprattutto, per chi i palazzi non li ruba. Ma la sostanza è quella. Per farla breve: Giuseppe Pignatone è venuto a Roma dalla Sicilia. Portandosi dietro un bel carico di imputazioni di mafia da distribuire, Ma anche il sistema secondo cui la “personalità del diritto” è da identificare con la personalità del Pm e del giudice, ha un limite. Almeno geografico. “Questa non è mafia: è Roma”.

Aggiornato il 25 luglio 2017 alle ore 21:23