Lo schiaffo di Parigi all’Italia

In politica vale un regola aurea: gli spazi vuoti si occupano. Nella gestione della crisi libica i governi di sinistra degli ultimi anni l’hanno palesemente ignorata permettendo che si determinasse un imbarazzante vuoto di iniziativa politica. Era facile prevedere che qualcuno quello spazio l’avrebbe occupato. Oggi è la Francia a mettere cappello sulla lotta intestina che ha spaccato il Paese nordafricano dopo la cacciata di Mu'ammar Gheddafi. Il presidente Emmanuel Macron ha convocato a Parigi il capo del governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite, Fayez al-Sarraj, e il suo acerrimo nemico il generale Khalifa Haftar, comandante delle forze ribelli che presidiano la Cirenaica. La motivazione ufficiale del summit è di riavviare il processo di pacificazione del Paese. Non sarebbe una cattiva notizia se non fosse che la sortita francese si compie in totale spregio del ruolo che l’Italia avrebbe dovuto esercitare nel contenzioso libico. Di là dalle rassicurazioni formali giunte dall’Eliseo al presidente Paolo Gentiloni, e alle quali nessuno crede, la sostanza è che Parigi torna all’attacco per portare a compimento il progetto che aveva spinto Nicolas Sarkozy, nel 2011, a forzare la mano scatenando l’offensiva bellica contro Gheddafi. Allora come ora non sono in ballo i diritti umani dei libici, che interessano poco, ma i giacimenti petroliferi di cui pullula lo “scatolone di sabbia”.

Il nostro governo non avrebbe dovuto consentire ad altri d’infilarsi in una trattativa che gli competeva in forza di patti non scritti che risalgono alla fine del Secondo conflitto mondiale. A dispetto delle narrazioni buoniste della sinistra, il mondo è ancora diviso in zone d’influenza nelle quali sono chiare le gerarchie tra gli Stati che comandano e quelli che obbediscono. Ragioni storiche, strategiche e geografiche hanno consolidato lo stretto collegamento tra i destini del nostro Paese e quelli del territorio che un tempo veniva chiamato “la quarta sponda italiana”. È stato così per decenni. Anche nei tempi bui dell’ascesa al potere del tiranno Gheddafi il filo rosso che legava Tripoli a Roma non si è spezzato. Almeno fino a quel maledetto 2011 quando la famelica rapacità dell’establishment transalpino ha decretato che la Libia dovesse cambiare manovratore.

Alla Francia, che controlla buona parte dei Paesi della costa atlantica africana e della regione del Sahel, mancava la casella libica per riaffermare la leadership nel “continente nero”. È una questione di rapporti di forza: i governi italiani non avrebbero dovuto permettere che quel cerchio si chiudesse. Non era riuscito alle bombe di Nicolas Sarkozy il colpo di mano che adesso si concede il “diplomatico” Macron. Eppure all’Italia era stato chiesto a più riprese dal potente alleato d’Oltreoceano di risolvere la crisi libica. Ma tutti gli inquilini succedutisi dal 2011 in poi a Palazzo Chigi hanno fatto orecchie da mercante lasciando che la situazione s’incancrenisse. Un’inaccettabile inanità che ha raggiunto l’acme quando, in barba al buon senso, l’ex premier Matteo Renzi si è piegato alla decisione dei partner occidentali di riconoscere il governo fantoccio  di al-Sarraj a Tripoli benché fosse noto a tutti che il prescelto non avesse alcun peso reale nel Paese e di sbarrare la strada ad Haftar, l’uomo forte che controlla ciò che resta dell’esercito regolare libico.

L’andare costantemente a rimorchio delle decisioni altrui è la cifra della sinistra al governo, che non si è smentita anche quando avrebbe dovuto mantenersi rigorosamente al di sopra delle parti in guerra. Il vuoto diproposta generato dall’abdicazione italiana al suo ruolo di guida del negoziato di pace ha dato l’opportunità all’astuto generale Haftar di procurarsi altri sponsor puntualmente trovati nel presidente egiziano al-Sisi, in Vladimir Putin e nell’inquilino dell’Eliseo. Non c’è alcun destino cinico e baro con cui prendersela per l’esclusione di fatto dell’Italia dalla partita libica. In politica, come nella vita, si raccoglie ciò che si semina. È colpa dei nostri recenti governi se oggi siamo esclusi da tutti i tavoli decisionali. E se l’Italia è divenuta una piccola cosa a cui chiunque, anche un grossolano capopopolo ungherese, osi dare ordini. E che nessuno si pari dietro la favoletta dell’ideale europeo. Quando ci sono in ballo gli interessi di bottega ciascuno pensa a sé. E noi? Quando ci verrà in mente che l’Italia è qualcosa di meglio di un’irrilevante espressione geografica?

Aggiornato il 25 luglio 2017 alle ore 21:20