“Riina si penta”, il suggerimento del presidente Grasso

Le dichiarazioni risalgono a qualche giorno fa. Non sembra siano state smentite, e neppure rettificate. Si è autorizzati a credere che riflettano esattamente il pensiero dell’autore, e correttamente siano state riprese e diffuse. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, in occasione della presentazione del suo ultimo libro “Storie di sangue, amici, fantasmi. Ricordi di mafia”, com’era inevitabile, sollecitato dalle domande dei cronisti, parla della Cosa Nostra siciliana e di Totò Riina. Per quel che riguarda quest’ultimo, afferma che “Riina è riconosciuto come il capo di Cosa Nostra, è quindi corretto che possa essere mantenuto in questa posizione (il carcere duro, ndr)”.

Certamente non si ha l’ardire di contestare la prima parte di questa dichiarazione, e segnatamente il fatto che Riina sia il riconosciuto capo di Cosa Nostra; se il presidente Grasso lo afferma, avrà motivi ed elementi per poterlo sostenere; però bisogna pure fare il successivo “passo”: che cosa è, cos’è diventata la Cosa Nostra siciliana, se dopo ventiquattro anni (Riina è in cella ormai da un quarto di secolo), non ha trovato nessuno che lo rimpiazzi, e lo riconosce tuttora come suo capo? Fa pensare che ancora “riconosca” e si affidi a un semi-analfabeta, ottantenne, malato, sottoposto ai rigori del 41-bis.

Ma senza troppo divagare. Il presidente Grasso sostiene che per Riina “c’è un modo per uscire da questa situazione carceraria: collaborare con la giustizia. Bernardo Provenzano ha portato i suoi segreti nella tomba, Riina è ancora vivo, se saranno 3mila anni speriamo che possa, per esempio, dirci chi erano quelle persone importanti che contattò prima della strage di Capaci. Finché Riina non chiarisce penso che debba restare dov’è”.

Il presidente Grasso perdonerà questo inizio di celia: ma siamo al prodromo di una “trattativa”? Sempre per celia: si “offre” a Riina il mezzo, il grimaldello per uscire dalla cella in cui si trova. Non ha che da parlare. Collaborare. Beninteso, non una collaborazione qualsiasi. Si indica anche l’oggetto/soggetto della collaborazione/“trattativa”: fuori i nomi di chi ha contattato prima della strage di Capaci.

Ora si esce dalla celia, dal paradosso. Ora si cerca di essere seri. Il presidente Grasso, seconda carica dello Stato, dice con chiarezza quello che effettualmente viene fatto: l’utilizzo del regime previsto dal 41-bis certo, per isolare dal loro contesto mafiosi, ‘ndranghetisti, camorristi e pericolosi delinquenti; troncare i loro contatti con l’esterno, impedire che possano comunicare e continuare a esercitare la loro funzione di leadership (ma qualcosa non funziona, se Riina è ancora il “riconosciuto” capo di Cosa Nostra). Però viene utilizzato, il 41-bis, anche come mezzo di pressione e coercizione per confessare; ed è la pratica di ogni regime inquisitorio. Se ne è consapevoli, il termine è forte, “pesante”, ma aveva ragione Marco Pannella quando usava il termine di “tortura”; ed esemplare, in questo senso, il libro di Sergio D’Elia e Maurizio Turco - “Tortura democratica” - non a caso clandestinizzato fin dalla sua prima uscita.

Siamo nello pseudo-machiavellismo del “fine giustifica i mezzi”. Il presidente Grasso è, peraltro, in buona compagnia. È sufficiente citare il caso di un giurista e grande avvocato statunitense, progressista e “di sinistra” come Alan Dershowitz; per quel che riguarda i terroristi islamici non ha remore a giustificare l’utilizzo della tortura. Il presidente Grasso ha il pregio di dire quello che pensa, laddove molti queste cose le pensano senza dirle.

Aggiornato il 26 luglio 2017 alle ore 09:06