Se chiamassimo le cose col loro nome

Si discute in Parlamento degli infami vitalizi ai corrotti politicanti. Usiamo aggettivi particolarmente dispregiativi perché questa è l’aria che tira contro i politici, cioè contro la politica nel suo complesso. Eppure sappiamo che da anni non ci sono più. Lo sanno persino i deboli di comprendonio ad alta diffusione fra i pentastellati che tuttavia, nella fattispecie, sono battuti dai tipi alla Richetti (incredibile, ma vero!)i sopravanzandoli nella gara del più demagogo e populista, nonché furbacchione (e lo capite da soli il perché), dell’anno. Vitalizi come espressione nefanda dei privilegi di una casta - cioè chi fa politica - insopportabile nelle sue soperchierie, indecente nella sua arroganza contro la società civile, squallida nella sua ingiudicabile incapacità perché permeata di corruzione.

La lotta alle speciali pensioni, passate, presenti e future, di deputati e senatori fa parte della strategia più ampia e a più voci, nella guerra di sterminio - dal sapore nazistoide - della Polis e della sua rappresentanza, cioè il Parlamento. Che è la sede di questa, per l’appunto, della categoria. Ne è l’espressione storica più compiuta, il guscio che racchiude filosofia e prassi del binomio impunità-immunità, il luogo deputato alla manifestazione delle sue malefatte. Siamo volutamente riduttivi ed emblematici, ma qualsiasi guerra al Parlamento, ancorché mimetizzata con una terminologia per dir così castale, è una guerra alla stessa democrazia perché ne colpisce al cuore l’essenza e la ragion d’essere, quella che Locke chiamava: the reason why.

Perciò se (forse) riuscissimo a chiamare le cose col loro proprio nome, eviteremmo (forse) di ricadere nei medesimi errori. Soprattutto, allontaneremmo da noi, anche e specialmente da e sui mass media, quella cattivissima, pericolosa e funesta abitudine a identificare col termine casta, uno e uno soltanto dei soggetti castali, essendo peraltro quella dei politici la rappresentanza di grado assai basso e assai meno delittuoso rispetto a quella che per davvero è la più autentica incarnazione di quei poteri alti, praticamente imbattibili, il cui esercizio del potere, quello sì, fa venire in mente la potenza irradiante e indomabile della Casta con la C maiuscola.

Alla politica, con l’inchiesta Mafia Capitale, era stato applicato, oltre al terzetto politica-corruzione-criminalità, il ben più pesante e devastante carico da novanta illustrato, urbi et orbi, dalla saga del Padrino, cosicché la casta corrotta era tale anche in forza della e con la minaccia spaventosa dei mitra mafiosi. Meno male che la sentenza del tribunale ha cestinato la tesi dell’accusa, ma la vicenda di Mafia (Non) Capitale ha comunque alimentato l’idea che il vero potere è esercitato dal binomio casta-criminalità, coinvolgendo la nostrana gauche. Eppure sappiamo, e lo devono sapere i sapientoni suaccennati in compagnia di una certa sinistra silenziata dai complessi di colpa e da smanie populiste - così tanto per regalare altri voti a Beppe Grillo in cambio di schiaffoni e calci in bocca, beninteso politici - che il concetto di casta è di per sé, storicamente e ideologicamente, di intrinseca debolezza e di evidente elusività perché, soprattutto, non spiega dal punto di vista sia del sociologo che del politologo i modi di esercizio del potere lasciando in tal modo nell’oscurità chi effettivamente dà gli ordini e chi è felice e contento di riceverli. Diciamocelo almeno inter nos che l’approccio è insoddisfacente, affatto parziale, e così, tanto per dire pane al pane e vino al vino, non poco truffaldino.

Aggiornato il 24 luglio 2017 alle ore 19:24